«La guerra continua comunque, anche dopo la liberazione di Kherson» ha dichiarato il ministro degli esteri ucraino, Dmytro Kuleba, a margine di un incontro diplomatico con il primo ministro australiano Anthony Albanese in Cambogia. Da qualche giorno, infatti, il governo di Volodymyr Zelensky è impegnato senza sosta a rilanciare la necessità di continuare la guerra contro la Russia, nonostante le voci autorevoli che si sono levate per una soluzione diplomatica in tempi brevi. Come quella di Mark Milley, il capo di stato maggiore congiunto statunitense che giovedì aveva parlato di «vittoria impossibile per entrambi gli eserciti». Ieri Kuleba ha dato l’impressione di voler rigettare la tesi di Milley parlando apertamente di un eventuale «cessate il fuoco». «Capisco che tutti vogliono che questa guerra finisca il prima possibile» ha detto il ministro degli esteri «ma finché la guerra continuerà e vedremo la Russia mobilitare altri coscritti e inviare altre armi in Ucraina, continueremo ovviamente a contare sul vostro continuo sostegno». Quest’ultima frase, tuttavia, suonava più come una speranza che come la solita dichiarazione roboante. Anche perché dopo Milley dagli Usa è arrivata anche la voce del presidente Biden, il quale è sembrato un po’ infastidito dalle «pretese» ucraine. «Non abbiamo dato a Kiev un assegno in bianco» aveva dichiarato il capo della Casa bianca prima di spiegare che i droni militari non saranno forniti all’Ucraina per evitare l’ennesima escalation.

TUTTAVIA, anche in seno all’amministrazione statunitense sembrano coesistere voci discordanti. In un’intervista al Corriere della sera, l’ambasciatrice permanente alla Nato per gli Usa, Julianne Smith, ha dichiarato che «non sappiamo quando la guerra finirà ma siamo certi che l’Ucraina prevarrà». Smith ha anche tenuto a stemperare le voci secondo le quali diverse fazioni all’interno del Congresso americano, in particolare i due estremi a destra e a sinistra, inizierebbero a essere stanchi del conflitto. «La Nato e l’Ucraina godono di un forte consenso bipartisan al Congresso. Certo, a volte ci sono delle opinioni divergenti, ma il sostegno degli Usa rimarrà, non ho dubbi» ha dichiarato l’ambasciatrice.

SECONDO quanto ha riportato l’agenzia russa Tass, però, Smith avrebbe anche chiarito che «gli Stati uniti si aspettano che i negoziati sull’Ucraina inizino ad un certo punto nel futuro prossimo, ma ritengono che sia il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a dover stabilire le condizioni per eventuali colloqui». È singolare che da un lato si leggano dichiarazioni così brutalmente realiste (Milley) e dall’altro c’è chi sostiene che «non c’è nessuna differenza tra l’approccio statunitense e quello ucraino» (Smith).
Del resto le discrasie si iniziano a notare anche nel granitico blocco dell’apparato russo. Ieri, secondo il quotidiano The Mirror, sarebbe stato rimosso un post su Telegram del filosofo ultra-nazionalista russo Alexander Dugin.

Nel testo del messaggio, apparso due giorni fa, si leggeva una dura critica al presidente Putin. In un’autocrazia, scriveva Dugin, «al sovrano viene dato potere assoluto per salvarci tutti in un momento critico se per farlo si circonda di schifezze o sputa sulla giustizia sociale, è spiacevole, ma è giustificato per salvarci». Ma, se il sovrano non salva il suo popolo «il suo destino è quello del Re della pioggia», ovvero essere giustiziato, come accade all’omonima figura dell’antropologo James Frazer. Si noti che Dugin, scampato a un attentato dinamitardo nel quale la figlia ha perso la vita lo scorso 21 agosto, è da sempre considerato una sorta di «padre spirituale» di Putin. Ma stavolta il filosofo si è spinto fino a reclamare apertamente la ghigliottina, specificando che non ha «niente contro Surovikin», il capo di stato maggiore congiunto russo in Ucraina, in quanto «il colpo non è diretto a lui. È un colpo per voi-sapete-chi».

UFFICIALMENTE il motivo di tanta acredine sarebbe la ritirata da Kherson, considerata da Dugin una sorta di lutto per tutti i russi. Anche il famoso presentatore tv, Vladimir Solovyov, ha dichiarato in diretta che la Russia «ha bisogno di un esercito più grande capace di affrontare una guerra su larga scala in tutta Europa». Solovyov ha anche insistito sul fatto che i «gravi problemi» nati durante l’ «operazione militare speciale ormai in stallo», vengano «risolti con il pugno di ferro» e che gli obiettivi iniziali non devono mutare.

UN ALTRO dei cosiddetti «falchi» di Mosca, Dmitry Medvedev, ha nuovamente minacciato Kiev scrivendo sul proprio canale Telegram che il suo Paese «non ha ancora utilizzato in Ucraina tutto il suo arsenale di armi» e «il ritorno alla Russia delle sue terre ancestrali continuerà», ribadendo che la decisione della ritirata è stata presa per «salvare le vite dei nostri militari». Insomma, Putin ora ha dei seri problemi interni a cui far fronte prima di tornare a occuparsi della Nato e degli Usa e in molti temono che questa situazione possa generare ulteriore violenza.