Il fiume Indo, che attraversa l’intero territorio del Pakistan da nord a sud e sfocia nel mar Arabico, nella provincia meridionale del Sindh si è trasformato in un grande lago, della larghezza di circa cento chilometri. Le alluvioni che hanno colpito il Pakistan nella stagione monsonica, da giugno a settembre, sono tra i più gravi eventi climatici del 2022: «Un disastro climatico di proporzioni bibliche», lo ha definito il ministro degli Esteri, Bilawal Bhutto Zardari, in un’intervista a Cnbc. 

Le inondazioni hanno colpito 33 milioni di persone e sommerso un terzo del paese, oltre 25mila chilometri quadrati di territorio. È stato definito l’evento estremo più letale dell’anno – considerate le alluvioni nell’Africa occidentale e centrale, in Iran, negli Stati Uniti, la siccità in Messico, nel Corno d’Africa, in Cina, le ondate di calore in Europa, India – e l’evento più drammatico del paese asiatico dal 1961, anno in cui sono iniziate le rilevazioni. Persino peggiore delle inondazioni del 2010, che avevano coinvolto tra 14 e 20 milioni di persone, con un bilancio di 1.700 morti.

Le piogge monsoniche degli scorsi mesi hanno colpito maggiormente le province nel sud del paese: in base ai dati del Dipartimento meteorologico pakistano, nel mese di agosto nel Balochistan le precipitazioni registrate sono state quasi sei volte superiori (590 per cento) alla media nello stesso periodo, mentre nella provincia del Sindh sette volte superiori (726 per cento). Più del doppio invece se si considera l’intero territorio nazionale (243 per cento). 

Le forti piogge hanno portato il governo a dichiarare lo stato di emergenza il 25 agosto scorso. Nell’ultimo rapporto pubblicato dall’Ocha, agenzia delle Nazioni unite, il bilancio delle vittime è di 1.700, oltre 12mila le persone ferite, 806mila le abitazioni distrutte, 1,3 milioni quelle danneggiate. I danni stimati ammontano a circa 30 miliardi di dollari, secondo quanto dichiarato dal segretario delle Nazioni unite Antonio Guterres, dato che l’enorme quantità di acqua che fatica a essere riassorbita ha distrutto molte infrastrutture – 6.700 chilometri di strade, 269 ponti e 1.460 strutture sanitarie – e ha danneggiato 18.590 scuole.

Cambiamento climatico

Gli analisti non possono ancora affermare con certezza in che misura il cambiamento climatico abbia determinato le alluvioni, ma secondo uno studio a cui hanno preso parte ventisei esperti di diversi centri di ricerca appartenenti al World weather attribution – un progetto specializzato in studi rapidi di eventi estremi – le precipitazioni portate dai monsoni sarebbero state aggravate dall’innalzamento delle temperature causato dalle emissioni di gas serra. 

I monsoni fanno parte di un andamento climatico regionale. È quindi difficile, scrivono gli esperti nel rapporto, analizzare l’andamento delle piogge monsoniche nel bacino del fiume Indo, perché «estremamente variabile di anno in anno». Ma, in base all’osservazione di un campione di cinque giorni di pioggia massima nelle province del Sindh e del Balochistan, le precipitazioni «sono ora più intense di circa il 75 per cento rispetto a quanto sarebbero state se il clima non si fosse riscaldato di 1,2 gradi centigradi», si legge nel rapporto. Mentre su un campione di sessanta giorni su tutto il bacino, le precipitazioni sono aumentate del 50 per cento: «Ciò significa», dicono i ricercatori, «che è più probabile che si verifichino precipitazioni così intense».

Da anni gli esperti avvertono che il cambiamento climatico può portare a eventi estremi sempre più frequenti e sempre più intensi, causando brusche oscillazioni da periodi di grave siccità a una presenza eccessiva di acqua. Le alluvioni hanno infatti colpito il Pakistan dopo ondate di calore estremo: tra marzo e maggio le temperature hanno toccato i 50 gradi, causando incendi boschivi, perdite nell’allevamento e nella produzione del grano, problemi sanitari e lo scioglimento dei 7mila ghiacciai che alimentano il fiume Indo. Lo scioglimento ha certamente intensificato la presenza di acqua nel paese ma ha contribuito probabilmente in misura inferiore rispetto alle precipitazioni, evidenzia lo studio. «È questo l'aspetto negativo del cambiamento climatico», ha spiegato al New York Times Anders Levermann, fisico del Potsdam Institute for Climate Impact Research in Germania, «non si tratta solo di un aumento o di una diminuzione di qualcosa. È un aumento della variabilità».

Responsabilità politiche

Ma le inondazioni e le gravissime conseguenze sono anche il risultato di responsabilità politiche, evidenzia lo studio: la vicinanza delle abitazioni e delle infrastrutture alla golena, un sistema di prevenzione e di drenaggio limitato e un sistema di gestione dei fiumi obsoleto. La carenza di investimenti da parte delle istituzioni nazionali e locali negli anni ha alimentato le diseguaglianze socio-economiche nell’accesso ai servizi primari: gli interventi statali di tipo ingegneristico, ad esempio, sono stati realizzati con l’obiettivo di sfruttare l’acqua come risorsa, senza prestare attenzione ai singoli territori. Così come la rete idrica, con obiettivi politici e non di equa distribuzione dell’acqua, o come il sistema creato per deviare l’acqua in eccesso nelle città verso le campagne, che risale al periodo di dominazione britannica. 

Un disastro che – spiega ad AlJazeera Ayesha Siddiqi dell’Università di Cambridge, tra gli autori dello studio – «è il risultato di una vulnerabilità costruita nel corso di moltissimi anni». Dopo la distruzione provocata dalle alluvioni nel 2010, il governo ha approvato una legge per la gestione dei disastri nazionali. È stato fatto qualche passo avanti, dicono gli esperti, ma è troppo presto per fare valutazioni più puntuali. La ricostruzione di infrastrutture più resistenti ai nuovi eventi climatici dopo la devastazione, si legge nel rapporto, può essere però un’occasione per evitare futuri rischi e tragedie.

Le conseguenze

In un paese con un’inflazione annuale che ha raggiunto il 42,3 per cento, l’economia ha subito ancora una volta un duro colpo. Sono 18mila i chilometri quadrati di terreni coltivabili danneggiati dalle piogge, di cui circa il 45 per cento coltivazioni di cotone, tra i principali prodotti di esportazione. Il settore agricolo, impegnato nella produzione di riso, cotone, grano, canna da zucchero e ortofrutta, in Pakistan coinvolge circa il 40 per cento della forza lavoro. E, considerando che il fiume Indo fornisce acqua per il 90 per cento della produzione di cibo del paese, si stimano dunque 2,3 miliardi di dollari di perdite nel settore. Ad aggravare la situazione alimentare, la perdita di circa 750mila capi di bestiame uccisi dalle inondazioni – l’11,2 per cento del Pil, secondo il Pakistan Institute of development economics – minacciando così un calo nella produzione di latte e carne del 30/40 per cento. Inoltre, agli animali sopravvissuti potrebbe non essere garantita la quantità di foraggio necessaria. 

La presenza di grandi quantità di acqua stagnante che la terra non riesce a riassorbire favorisce poi la diffusione di malattie. L’Oms e l’Unicef hanno lanciato l’allarme per il rischio di un’epidemia di malattie come il colera, la dissenteria, la malaria e la dengue. Ma l’allerta è anche sul ritorno di malattie infettive come il morbillo, la polio e forme di dissenteria associate a infezioni.

Emissioni di altri

Alcuni distretti della provincia del Sindh sono rimasti sott’acqua per circa due mesi, l’inverno è alle porte e occorre un riparo per migliaia di sfollati. «Il Pakistan sta pagando il prezzo delle emissioni di altri», ha affermato Sherry Rehman, ministra per il cambiamento climatico. Il paese produce meno dell’1 per cento delle emissioni globali di gas serra ma è tra i primi dieci a subire le gravi conseguenze del cambiamento climatico. «Un paese povero come il Pakistan, che non produce anidride carbonica, che non contribuisce all’effetto serra, sta sopportando le conseguenze più gravi del riscaldamento globale», ha ribadito il ministro delle Finanze, Miftah Ismail.

Alla Cop27 in corso in Egitto, i paesi a rischio chiedono che i grandi inquinatori rispettino gli impegni presi e attuino i programmi di transizione energetica, oltre a risarcire i paesi più vulnerabili al cambiamento climatico. Il Fondo monetario internazionale ha autorizzato un prestito al Pakistan da 1,1 miliardi di dollari, ma – come ha precisato al New York Times Nida Kirmani, professoressa di sociologia alla Lahore School for Management Sciences – «ogni sostegno che viene dato non dovrebbe essere considerato un “aiuto”, piuttosto un risarcimento per le ingiustizie accumulate negli ultimi secoli».

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