Il 9 novembre il generale Sergej Surovikin, nominato a capo dell’operazione militare speciale, ha suggerito al ministro della Difesa Serghei Shoigu di ritirarsi sulla sponda orientale del fiume Dnipro e cioè di abbandonare Kherson, annessa in pompa magna meno di due mesi fa con una cerimonia al Cremlino.

Erano in molti ad annunciare anzitempo una disfatta ucraina nel sud perché la spinta iniziale della controffensiva si era arenata sulle linee difensive russe. Gli ucraini sono riusciti a calare da Kryvyj Rih lungo il Dnipro e liberare una parte consistente di territorio, ma in campo aperto e pianeggiante è difficile avanzare sotto il tiro nemico.

Il generale Capitini, docente alla Scuola sottufficiali dell’Esercito, ha scritto che gli ucraini avevano perso più uomini di quanti ne avessero schierati, con diecimila morti e trentamila feriti in una settimana di combattimenti. Stime ridicole smentite dalla continua pressione ucraina su Kherson e dagli esiti odierni.

La difesa

Il sociologo della Luiss Alessandro Orsini il 6 settembre ha scritto un articolo per il Fatto Quotidiano dal titolo “A Kherson la controffensiva ucraina è un fallimento: è ora che l’Ue lo dica”. Mentre il generale Marco Bertolini, già capo del Comando operativo di vertice interforze e della Brigata Folgore, il 12 settembre ha dichiarato, intervistato dall’Agi, in merito alla controffensiva su Kherson, che «quanto visto a Kharkiv non può essere replicato».

Da un punto di vista tattico, nel settore meridionale gli ucraini non hanno sfondato ma si sono affidati al logoramento delle difese con bombardamenti ai depositi e delle infrastrutture. Da un punto di vista strategico, hanno ottenuto lo stesso risultato: una ritirata russa da tutta la regione a nord-ovest del Dnipro e dal capoluogo dell’oblast, come avvenuto da Izium a settembre.

La ritirata annunciata da Surovikin e Shoigu ha scatenato le ipotesi sulle reali intenzioni della Russia. C’è chi immagina l’uso di bombe sporche o persino di testate nucleari tattiche. Le truppe occupanti, prima di abbandonare Kherson, potrebbero minare le strade della città e disseminare gli edifici di trappole esplosive, per rendere più difficile il lavoro ai liberatori ucraini quando arriveranno. Solo allora sapremo di più sulle numerose azioni partigiane portate a termine in questi mesi dalla resistenza, con l’aiuto delle forze speciali dietro le linee nemiche, grazie all’intelligence fornita da Kiev.

Intanto, però, è morto Kirill Stremousov, nominato da Mosca vice-governatore dell’oblast di Kherson. Sarebbe deceduto in un presunto incidente il 9 novembre e circolano foto della sua auto che si sarebbe schiantata per evitare un altro veicolo.

Stremousov era un politico e blogger ucraino filorusso, divenuto il volto infame dell’occupazione con proclami video dalla regione contesa. Fu lui ad annunciare l’evacuazione dei civili dal capoluogo dell’oblast, ormai ritenuto a rischio. I russi hanno fatto saltare numerosi ponti per rallentare l’avanzata ucraina, che presumibilmente si fermerà alla sponda occidentale del Dnipro, perché il ponte Antonovsky e quello di Nova Khakovna sono stati bombardati proprio per interrompere i rifornimenti dalla Crimea.

Inoltre, il corso del fiume in inverno diventa più impetuoso e profondo, mentre la sponda ovest sarà comunque sotto il tiro dei russi. In queste settimane si è manifestato il fenomeno della “rasputitsa” che aveva già afflitto le truppe del Cremlino in primavera: una distesa di fango che fa impantanare buona parte dei mezzi, impedendo manovre efficaci e rapide.

Anche per questo aumenterà l’uso dell’artiglieria e dei missili balistici da entrambe le parti, che possono colpire rispettivamente Kherson e Zaporizhzhia da un lato, Melitopol e Mariupol con gli Himars dall’altro. Non sembra imminente un’offensiva ucraina su Melitopol, che poteva essere utile in funzione strategica per soffocare la Ground line of communication che dal Donbass portava rifornimenti a Kherson.

I russi stanno anche costruendo un massiccio sistema difensivo scavando trincee nel nord della Crimea, che è ritenuta vulnerabile dopo l’avanzata su Kherson e l’attacco al ponte sullo stretto di Kerch.

Il mare

A questo proposito, torna a pesare la dimensione marittima del conflitto. Il danneggiamento della flotta russa nel mar Nero è un cardine della strategia ucraina di interdizione (sea denial) per impedire lanci balistici contro le città dal mare, blocchi navali e sbarchi anfibi sul porto di Odessa, uno degli obiettivi principali della guerra. Kiev, in assenza di una marina militare, si è affidata a una flotta di barchini esplosivi, forze speciali di incursori e sabotatori che manovrano droni e siluri.

Mosca ha dimostrato di non avere sea control sull’area, nonostante la schiacciante superiorità navale. La sua ammiraglia è stata affondata e il resto della flotta decimato con attacchi asimmetrici, ma non è stato possibile sostituirla con altre navi, perché da marzo la Turchia ha negato l’accesso al mar Nero a due importanti navi russe: l’incrociatore Varyag e il cacciatorpediniere Admiral Tribuc, che hanno fatto di nuovo rotta verso il Pacifico dopo mesi in attesa.

Ankara, infatti, controlla il passaggio di navi da guerra negli stretti del Bosforo e dei Dardanelli, in base alla convenzione di Montreaux del 1936. L’unico successo marittimo che Mosca può vantare, con l’occupazione della costa di Mariupol fino alla Crimea, è il pieno controllo del mar d’Azov dove poter sviluppare una flotta sottomarina da usare nel mar Nero.

Il fallimento della mobilitazione

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Sul fronte terrestre le cose non vanno meglio per il Cremlino, infatti la mobilitazione si è rivelata fallimentare, se non controproducente. Le città di Mosca e San Pietroburgo, 17 milioni di abitanti sommate, sono state toccate solo per 20mila coscritti, circa l’un per cento dei riservisti disponibili, mentre le regioni rurali per il 4-5 per cento circa, secondo quanto stimato dalle analisi della Rane – Stratfor americana.

Si moltiplicano le proteste e i casi di diserzione tra i coscritti, che vengono arrestati per il rifiuto di combattere e detenuti in almeno sette centri. Ora hanno la scelta di tornare al fronte con la probabilità di essere massacrati o di andare in prigione in Russia, dove tra l’altro il gruppo Wagner sta reclutando più o meno forzosamente nelle carceri.

Secondo The Insider sono quasi 500 gli ex prigionieri russi già morti in Ucraina combattendo per i mercenari di Yevgeny Prigozhin, in base alle lettere postume inviate alle famiglie dei caduti. In base ad alcuni resoconti emersi, il generale Aleksandr Lapin, rimosso dal comando in Ucraina, avrebbe minacciato con la pistola alla tempia un tenente che aveva fatto ritirare la sua compagnia di coscritti da un villaggio sotto bombardamento ucraino, definendo gli uomini traditori e disertori.

Le condizioni di salute di molte reclute sono pessime, con casi di bronchite e polmonite favorite dalle rigide temperature, oltre alla scarsità di cibo e medicine denunciata da vari reparti. Circolano in rete i video di soldati che sfidano e insultano apertamente i propri comandanti, che in alcuni casi sembrano persino alticci, mentre un coscritto rivendica di essere membro di un clan mafioso e di non temere l’ufficiale. In queste condizioni di disciplina e di morale bassissimi è difficile ipotizzare qualsiasi manovra russa su vasta scala.

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