Siria, Libia, Yemen, Egitto e infine Tunisia. A più di dieci anni dalle primavere arabe, i paesi dove le proteste pro democrazia hanno avuto maggior impatto si ritrovano in guerra o governati da regimi autoritari. L’ex presidente tunisino Moncef Marzouki vive questo paradosso: medico e attivista per i diritti umani, tra il 1994 e il 2011 è stato più volte arrestato in quanto oppositore del presidente-dittatore Ben Ali e costretto a rifugiarsi in Francia.

Rientrato in Tunisia all’indomani della caduta del regime, è stato eletto capo dello stato e ha promosso la stesura della nuova costituzione democratica, approvata nel 2014. Oggi si trova di nuovo in esilio a Parigi: a dicembre 2021 la giustizia tunisina l’ha condannato a quattro anni di carcere per le sue dichiarazioni contro l’attuale presidente Kaïs Saïed, che l’anno scorso ha sciolto il parlamento e fatto approvare una nuova costituzione iperpresidenziale.

L’ex presidente non è il solo: nelle scorse settimane, almeno dodici tra membri dell’opposizione e giornalisti critici di Saïed sono stati arrestati, suscitando le reazioni di Onu, Commissione europea e Stati Uniti. Nessuna parola di condanna da parte del governo Meloni, che anzi cerca in Tunisi una sponda nella lotta all’immigrazione. Secondo la Relazione annuale sulla politica dell’informazione per la sicurezza 2022, presentata martedì, l’anno scorso il flusso dalla Tunisia è aumentato del 60 per cento.

Presidente Marzouki, cosa sta accadendo in Tunisia?
La Tunisia è bloccata in una situazione di stallo totale. La rivoluzione democratica iniziata nel 2011 ha fallito, come ha fallito la controrivoluzione promossa dalle forze reazionarie che hanno vinto le elezioni prima nel 2014 e poi nel 2019. A questo si aggiunge una crisi economica, sociale e morale durissima, aggravata dalle conseguenze della guerra in Ucraina. Intanto, a regnare nel caos è un presidente putschista
, un Gheddafi senza petrolio, che ha stracciato la costituzione, chiuso il parlamento con i blindati e sospeso le libertà.

Fino a qualche tempo fa la Tunisia era considerata l’unico esperimento riuscito delle primavere arabe: cosa non ha funzionato?
Due fattori sono stati determinanti in Tunisia, come negli altri paesi toccati dall’ondata rivoluzionaria. In primo luogo, il sabotaggio da parte delle potenze regionali che temevano il contagio democratico. Penso soprattutto all’Iran, che in Siria ha dato man forte ad Assad per reprimere la resistenza, ma anche all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti, che sono intervenuti sia in Yemen che in Libia, con le conseguenze che vediamo oggi. In Tunisia, alle bombe hanno preferito i soldi: poco prima di essere eletto, ad esempio, il mio successore Essebsi, figura del regime pre rivoluzione, ha ricevuto in dono dagli Emirati Arabi due Mercedes blindate. L’altro fattore ha a che fare con l’islam politico: dove la rivoluzione è riuscita a portare libere elezioni, queste hanno spesso premiato forze islamiste. La classe media occidentalizzata, spaventata, ha quindi preferito tornare indietro e aderire alla controrivoluzione.

Possiamo dichiarare chiusa l’esperienza delle primavere arabe?
Niente affatto. La democratizzazione è un processo lungo, che può arrestarsi e riprendere, rallentare e accelerare. All’immagine della primavera preferisco quella del vulcano: anche quando sembra inattivo, sotto la superficie, continua ad agitarsi, pronto a esplodere da un momento all’altro. E la rivoluzione esploderà di nuovo perché il carburante che l’ha alimentata nell’ondata del 2011-2012 non si è esaurito: la disoccupazione giovanile, l’impoverimento della classe media, la corruzione, gli ingredienti ci sono tutti. Ne abbiamo avuto la prova con le proteste in Algeria, Libano e Sudan degli ultimi quattro anni.

L’impressione, però, è che le proteste oggi siano meno partecipate e sentite che nel 2011-2012. Perché?
Sono convinto che i popoli arabi vogliano ancora la libertà e la democrazia, ma sono più timidi nei confronti della rivoluzione perché temono di piombare nel caos della Siria. A lungo andare però, vista la situazione economica, non avranno scelta: rivoltarsi o crepare. Allora starà a noi, uomini politici di sensibilità democratica, indirizzare le proteste perché non siano solo rivolte del pane, ma il punto di partenza di un percorso di trasformazione profonda dello stato e della società.

In questa lotta tra rivoluzione e controrivoluzione da che parte sta l’occidente?
Gli stati occidentali hanno perso una grande occasione dieci anni fa. Perché se le dittature mediorientali hanno fatto di tutto per sabotare la rivoluzione, loro non hanno fatto nulla per sostenerle. Ricordo di aver mandato ai tempi una lettera all’allora presidente Barack Obama, chiedendo di fare pressione sugli Emirati perché smettessero di interferire: nessuna risposta. Ma non mi stupisce. Del resto gli Stati Uniti hanno come migliori alleati nella regione i regimi dell’Arabia Saudita, degli Emirati e dell’Egitto. Poco male, vorrà dire che la democrazia ce la costruiremo da soli.

Il 18 gennaio scorso, i ministri italiani Antonio Tajani e Matteo Piantedosi hanno incontrato il presidente Saied a Tunisi per discutere di lotta all’immigrazione irregolare. Ieri, Meloni ha sentito l’omologa Bouden ribadendo il sostegno italiano. Che effetto le fa?
È la perfetta illustrazione dell’approccio miope con cui l’Europa si relaziona con il nordafrica e il medio oriente: si appoggiano i regimi pensando che garantiscano stabilità, ma è una stabilità illusoria, basata sulla violenza e la corruzione. Finché non si risolve il problema alla radice, supportando la nascita di democrazie forti capaci di portare vera stabilità, sviluppo duraturo e pace sociale, migliaia di persone continueranno a mettersi sui barconi per andarsene, chiunque sia il presidente del consiglio o il ministro di turno.

Giorgia Meloni ha promesso un cambio di passo nelle relazioni tra Africa e Italia e invocato un “piano Mattei” basato sulla «cooperazione non predatoria». Che ne pensa?
Finché questi paesi sono governati da regimi autoritari, sono loro e solo loro a beneficiare di questi accordi, mentre la popolazione locale rimane povera e oppressa. In ogni caso, fatico a vedere in questa promessa altro che parole: l’estrema destra è sempre anti terzo mondo. Che Meloni inizi ad accogliere degnamente quelli che cercano di arrivare in Italia, dopo potremo parlare di cooperazione.

Come dovremmo comportarci nei confronti di questi regimi?
Innanzitutto smettere di fare affari con loro come se nulla fosse. Non dico stracciare gli accordi, ma quantomeno vincolare gli investimenti al rispetto delle libertà fondamentali e dello stato di diritto. Però non mi faccio illusioni: chi governa in Europa è vittima del calcolo elettorale e quindi guarda solo agli interessi sul breve termine, che spesso coincidono con quelli delle dittature. Non si accorgono che così facendo non fanno altro che rifilare la patata bollente a chi verrà dopo di loro. Quando la situazione esploderà in modo violento, anche l’Europa ne pagherà le conseguenze.

Durante i Mondiali in Qatar abbiamo visto tutto il mondo arabo festeggiare per l’impresa del Marocco. Perché quest’unità sembra non esistere a livello politico?
Perché i regimi che governano la maggior parte degli stati arabi non sono l’immagine dei rispettivi popoli. Devono la propria sopravvivenza alla forza militare o al sostegno di potenze straniere, non al consenso democratico, e gli autoritarismi sono per propria natura inclini al conflitto. Pensi all’Europa: l’Unione ha potuto vedere la luce solo quando la democrazia ha prevalso dappertutto sulle dittature. Con Mussolini, Hitler e Franco non sarebbe stato possibile. Ecco, qui è lo stesso: ci sono ventidue stati arabi, la maggior parte governati da regimi autoritari, ciascuno dei quali pensa solo a tenersi stretto il potere. Solo con la democrazia potremo iniziare a costruire uno spazio economico e politico condiviso.

Cosa significa essere costretti a vivere di nuovo in esilio?
Mi sento come uno che, seduto sulla sponda, guarda la nave affondare e sa che su quella nave ci sono i suoi familiari, la sua gente. Ma anche da qui, nel limite dei mezzi che ho a disposizione, cerco di fare di tutto per evitare il naufragio. Non posso vedere il paese che ho servito per 50 anni tornare ai suoi tempi più bui, alla persecuzione degli oppositori politici, a una costituzione degli anni Cinquanta. Ma ne sono convinto: Saïed verrà cacciato come Ben Ali, Mubarak e Gheddafi prima di lui. È solo una questione di tempo.

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