«Per risparmiare, molto spesso le persone vengono qui già con il formaggio e chiedono di metterglielo nel pane». Mentre continua a sfornare Man’ouche, la colazione preferita dagli studenti perché facile da mangiare per strada, Rahib (nome di fantasia) racconta l’impatto che la guerra in Ucraina ha avuto sulla sua panetteria, tra le più antiche del quartiere Achrafieh, a est di Beirut.

Dopo il nonno, a subentrare dietro il bancone è stato suo padre. Da cinquant’anni, l’Azad Bakery è un punto di riferimento per i suoi abitanti, ma da febbraio a frequentarla sono sempre di meno. Da allora, «solo il 30 per cento di loro continua a venire a comprare il pane», ci spiega Rahib. Colpa di una crisi economica senza fine, tra le più pesanti da oltre cento anni, a cui se ne aggiunge una alimentare non meno grave che interessa circa l’80 per cento della popolazione. Importando oltre il 60 per cento di grano dai territori in conflitto, il Libano è infatti uno dei paesi che più sta soffrendo la mancanza del cereale, fonte primaria nell’alimentazione della popolazione.

La nave Razoni, tra le prime tre a lasciare il porto di Odessa con 26mila tonnellate di mais al carico, avrebbe dovuto attraccare al porto di Tripoli la prima domenica di agosto, ma non è mai arrivata. La motivazione è avvolta dal mistero, che si infittisce ancor di più dopo quello della Laodicea: secondo Kiev trasportava 10mila tonnellate tra grano e orzo rubate dai russi e dirette in Siria, eppure a fine luglio è sbarcata nel nord del Libano per ragioni sconosciute.

Il pane come il sushi

(AP Photo/Bilal Hussein)

La terra dei Cedri ha continuato a comprare grano da altri luoghi, ma reperirlo è sempre più difficile. «Si trova solo al mercato nero, dove chiedono dollari freschi», continua Rahib. Dollari che la gente non ha, visto che le banche da tre anni a questa parte hanno congelato i loro conti, imponendo limiti stringenti sui prelievi. Tra l’altro, quando va bene, viene emessa solo lira libanese che non vale più nulla.

A quantità minori corrispondono perciò prezzi più alti, tanto che Rahib da qualche tempo spende quanto incassa, senza guadagnare. Prima la sua panetteria poteva permettersi dei dipendenti, che riusciva a pagare appena 10 dollari al giorno, ora invece ad aiutarlo ci sono i suoi due figli, che insieme non arrivano a venticinque anni d’età.

Per essere precisi, neanche Rahib è un panettiere di professione: nella vita fa il barbiere, ma si è riciclato per dare una mano al padre. A pesare sulla sua attività è poi la mancanza di corrente elettrica, che lascia spesso il Libano al buio. Per averla ventiquattro ore al giorno bisogna sborsare qualche centinaio di dollari al mese, un privilegio che pochi eletti possono permettersi. Tuttavia, il costo del pane è cresciuto naturalmente anche per chi lo consuma tutti i giorni. A causa del sovrapprezzo, la tradizionale Man’ouche, da mangiare anche con lo Za’atar (spezia tipica del Medio Oriente), con lo yogurt o rivestita di carne piccante, «è diventata come il sushi», continua Rahib. Prima della guerra costava l’equivalente di 10 centesimi di dollaro mentre oggi ne vale 1,3, pari a circa 40mila lire libanesi.

La guerra in Ucraina è stata uno spartiacque drammatico nella vita dei libanesi, andando ad aggravare una situazione che, dal 2019 a questa parte, non è più sostenibile. Nell’assenza più totale di uno stato in cui più nessuno si riconosce e per cui sempre meno persone nutrono fiducia, il Libano si regge ormai solo sulla caparbietà dei suoi cittadini. In tanti hanno capito che per andare avanti devono contare solo su loro stessi o sulla generosità delle organizzazioni non governative, che cercano di colmare le mancanze di una classe politica, la stessa da decenni, sempre più scollata dalle esigenze della popolazione.

Beit el Baraka è una di queste. La incontriamo nella loro sede aperta nel 2018, l’anno in cui è stata fondata. Partita da zero e armata di tanta buona volontà, ora l’ong riesce a prendersi cura di migliaia di persone. Lo scorso anno, a pochi passi, ha aperto un proprio negozio dove, attraverso un sistema a punti che varia in base alla reperibilità dei beni in questione, i più bisognosi possono recarsi a comprare ciò che gli serve. Tra cui generi alimentari locali come yogurt, olio, verdure e altri prodotti locali. «Non volevamo consegnare loro delle scatole preconfezionate, ma dargli la libertà di scegliere quello di cui hanno più bisogno», ci spiega l’operation manager dell’organizzazione, Natacha. A chi non è in grado di poter cucinare vengono garantiti dei box contenenti cibo già pronto, ma l’obiettivo è quello di far sentire tutti uguali, anche nelle difficoltà. 

Difficoltà a cui ogni giorno il Libano è chiamato far fronte, senza che tra i politici ci sia alcuna voglia di porre rimedio. A sentir parlare Natacha, l’insicurezza alimentare in cui verte il paese è dovuta per lo più «alla negligenza del governo nello sviluppo agricolo. Esportiamo tutto quello che produciamo e importiamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Non utilizziamo i nostri prodotti». Su tutti: patate, pomodori, mele, arance, olive, cetrioli e ovviamente limoni. A mancare dunque è la valorizzazione delle proprie potenzialità, un problema che da queste parti si estende ben oltre il settore dell’agroalimentare. Né tantomeno esiste una visione a lungo termine che permetta di utilizzare le risorse che la terra è capace di offrire.

L’acqua è forse l’esempio più lampante. Tra quella del Mediterraneo e quella che cade dal cielo, il Libano potrebbe sfruttarla per un sistema energetico sostenibile e per incrementare la produzione interna di cibo che tanto servirebbe ai libanesi. Invece si ritrova con una crisi idrica drammatica che, già l’anno scorso, costringeva il 71 per cento dei libanesi a vivere con meno di 35 litri al giorno per via dei costi insostenibili. 

La società civile

Come al solito, quindi, a dare l’esempio è la società civile. L’anno scorso, la fondatrice di Beit el Baraka ha deciso di aprire un’altra organizzazione, Kanz, che dà lavoro alle donne libanesi che lavorano la terra. Quando entriamo nel loro ufficio, dove campeggia in bella mostra una cartina del paese con i vari generi alimentari divisi per regione, è in corso una riunione ma, da perfetta ospitalità libanese, tutto viene interrotto all’istante per spiegarci la loro missione. Che è di duplice natura: valorizzare il lavoro delle donne nella comunità e autofinanziare l’attività dell’organizzazione madre con la vendita dei prodotti che queste realizzano.

Prima però vengono rivisitati dai loro chef in una spaziosa cucina, che è parte integrante della struttura. Il sogno a breve termine è quello di aprirsi un proprio ristorante, con un menù che metta in risalto i loro principi. Il tipico Baba ghanouj, anche noto come caviale di melanzane da accompagnare dall’onnipresente pane arabo o ai falafel, qui viene rinominato Mama ghanouj dato che viene realizzato da sole donne. 

Dettagli che dimostrano il grande valore sociale che il cibo riveste in Libano. Non è solo l’atto di mangiare, non più così scontato ma anzi preoccupazione quotidiana per una fetta di popolazione sempre più larga, quanto piuttosto condivisione. Al tempo stesso, è anche lo specchio di un paese che sta rischiando di perdere la sua identità, e dunque la sua cultura, a causa dell’inefficienza della classe dirigente. «Questo sistema corrotto ha portato all’attuale insicurezza alimentare, ingigantita dalla guerra in Ucraina», afferma Natacha. Una somma di fattori che ha un unico, inevitabile risultato: «Non abbiamo più pane».

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