Nonostante la procuratrice generale avesse avvisato che sarebbe stato meglio valutare prima se il provvedimento avrebbe potuto avere qualche effetto deterrente, domenica scorsa il comitato legislativo del governo israeliano ha dato via libera alla legge sulla pena di morte.

Secondo il testo proposto dal partito di destra Otzma Yehudit, che ieri ha passato il primo voto in parlamento, «chi intenzionalmente o meno causa la morte di un cittadino israeliano, se l’atto è portato a termine per motivi razzisti o di odio allo scopo di danneggiare lo stato di Israele e la rinascita del popolo ebraico nella sua patria», è passibile di pena di morte.

Se il crimine è commesso in Cisgiordania, la pena verrà inflitta da un tribunale militare anche in caso di non unanimità del verdetto.

IL MINISTRO per la Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, ha dichiarato che «si tratta di una legge morale, tanto più necessaria in uno stato in cui i cittadini israeliani vengono presi di mira da un’ondata di terrorismo, e che esiste nella più grande democrazia del mondo», un chiaro riferimento agli Stati uniti. Che dunque non avranno motivo di protestare. Nella nota di accompagnamento alla legge, si fa riferimento al «grande effetto deterrente» della pena di morte, che peraltro proprio negli Stati uniti ha dimostrato di non esistere.

Al di là dell’impressione suscitata dall’assistere a un passo del genere proprio nell’unico stato del Medio Oriente in cui la pena di morte non è applicata (il numero globale è di 144 stati, l’ampia maggioranza del pianeta) e del ritorno della mai dimostrata idea della «deterrenza», il testo lascia sgomenti: per com’è scritto, è evidente che non riguarderà il caso, contrario, in cui l’omicida sarà un ebreo e l’ucciso un palestinese.

Non a caso, Amnesty International Israele ha preso una posizione ferma: l’organizzazione per i diritti umani ha definito la legge «un altro tassello di un colpo di stato legale che intende aggirare se non eliminare gli ultimi contrappesi che, di tanto in tanto, hanno cercato di difendere i diritti umani delle minoranze: un colpo di stato legale nato dalla contorta idea della supremazia ebraica e che intende legittimarla».

Siamo di fronte a un altro tassello del sistema di apartheid israeliano: una legge che crea una distinzione su base nazionale ed etnica tra chi compie un omicidio e di cui si propone l’applicazione anche dove la legge della Knesset non ha competenza e dove regnano le ordinanze militari, ossia nei Territori occupati palestinesi.

L’ORRORE è che il sistema dell’apartheid si rafforzi attraverso una legge sulla pena di morte. L’Europa, che ha una consolidata posizione abolizionista e che è da tempo promotrice delle risoluzioni contro la pena di morte all’Assemblea generale delle Nazioni unite, prenderà posizione? O prevarrà, come sempre quando si tratta di diritti umani, «l’eccezione Israele»?

Anche di questo si parlerà il 14 marzo a Roma, in un convegno in programma alle 15.30 all’Università La Sapienza cui prenderanno parte, tra le altre, Francesca Albanese (relatrice speciale delle Nazioni unite sui diritti umani nei Territori palestinesi occupati dal 1967), Leila el Houssi (docente di Storia e istituzioni dell’Africa presso la facoltà di Scienze politiche, Sociologia e Comunicazione), la giornalista e scrittrice Paola Caridi e, per Amnesty International, la coordinatrice delle campagne Tina Marinari.

*portavoce Amnesty International – Italia