Sudafrica di nuovo sull’orlo di uno psicodramma politico. Il presidente Cyril Ramaphosa, che doveva ripulire l’immagine del Paese dopo gli scandali dell’era Zuma e magari frenare l’emorragia di consensi patita dall’African National Congress (Anc) negli ultimi anni per motivi in buona parte coincidenti, è travolto da analoghe accuse di malversazione, corruzione e condotte a dir poco sconvenienti per un capo di stato.

PUÒ FORSE UN PRESIDENTE in carica imbottire di banconote dall’incerta provenienza (4 milioni di dollari secondo l’accusa, “solo” 580mila per l’accusato, ricevuti – dice – da un misterioso uomo d’affari sudanese a fronte di una compravendita di bufali) il divano della sua residenza privata? E una volta che ne è stato rapinato, omettere di denunciare il fatto per non dover poi spiegare l’origine del malloppo? Il rapporto della commissione incaricata di soppesare le accuse che dallo scorso giugno pendono sul presidente Cyril Ramaphosa sembrerebbe dire che no, non è per niente lecito.

Questo vuol dire che Ramaphosa può essere oggetto di un procedimento di impeachment per «gravi violazioni del suo mandato costituzionale» (articolo 89). Anche al netto delle ulteriori, pesanti accuse formulate dall’ex capo dell’intelligence Arthur Fraser, secondo il quale il presidente avrebbe prima fatto sequestrare i ladri e poi avrebbe comprato il loro silenzio. Ma Fraser è al tempo stesso l’anello debole dell’impianto accusatorio, in quanto dirigeva i servizi segreti al tempo di Zuma ed è stato anche inquisito per il ruolo svolto nel rilascio dell’ex presidente – agli arresti per il rifiuto di comparire in uno dei tanti processi aperti a suo carico – per presunte ragioni di salute.

CONSEGNATO IN DIRETTA TV nella mani della presidente del parlamento Nosiviwe Mapisa-Nqakula mercoledì, il rapporto verrà reso pubblico solo il 6 dicembre, ma le sue conclusioni sono già state date in pasto all’opinione pubblica. Messo con le spalle al muro, ieri Ramaphosa avrebbe dovuto chiarire se «dimettersi o combattere», ma mentre crescevano le pressioni sulla prima opzione, sono saltati, nell’ordine, il question time in parlamento, la riunione virtuale del Comitato esecutivo nazionale che è chiamato a gestire la patata bollente in casa Anc e soprattutto il discorso televisivo alla nazione, precedentemente annunciato dall’ufficio della Presidenza. Tutto rimandato, presumibilmente a oggi. Ramaphosa vuole avere più tempo per analizzare il rapporto e capire se e quanto spazio di manovra gli resta per non fare anzitempo la fine del suo predecessore. Il quale non ha perso tempo per accusarlo di tradimento e corruzione, pregustando l’imminenza di una nemesi.

I FATTI RISALGONO al febbraio 2020. Il luogo è il ranch di Ramaphosa nella provincia settentrionale del Limpopo, 4500 ettari di paradiso per i bovini della pregiata razza Ankole, introdotta per la prima volta in Sudafrica dallo stesso Ramaphosa nel 2004, quando sembrava aver abbandonato definitivamente la politica per gli affari. Ma anche un inferno per gli animali selvatici che – accusano in questo caso gli ambientalisti – verrebbero introdotti nell’area privata solo per essere trasformati in trofei di caccia dai ricchi amici del proprietario. L’azienda di allevamento di Phala Phala, alla base del nuovo Farmgate sudafricano, non è peraltro mai entrata nella dichiarazione dei redditi del presidente.

E ORA? BORSE IN FIBRILLAZIONE, il rand ai suoi minimi storici e l’opposizione dell’Alleanza democratica affila le armi in vista dei prossimi passaggi istituzionali. Nel 2024 si vota per le presidenziali e la storica supremazia dell’Anc non è mai stata così a rischio. Per condurre il paese al voto si è già detto indisponibile Kgalema Motlanthe, storico esponente dell’Anc che fu già presidente di transizione dopo le dimissioni di Thabo Mbeki, avvenute per presunte interferenze nelle indagini su Zuma, che divenne presidente un anno dopo. La catena dei veleni si allunga.