La guerra per le poltrone; la pochezza culturale e morale della «nuova» classe dirigente; la resa dei conti nella coalizione di destra; gli interessi nella loro materialità brutale. Assistiamo in diretta allo spettacolo della degenerazione della politica.

Sarebbe sbagliato tuttavia indugiare nella cronaca di colore e non considerare le ragioni di fondo che hanno portato la destra nazionalista a conquistare le leve del comando. Aldilà delle scaramucce sulla spartizione degli incarichi, non c’è dubbio che siamo in presenza di uno spostamento culturale e politico profondo nella società italiana, di una «rivoluzione conservatrice», che non significa ritorno al passato, ma il tentativo di dare un assetto nuovo al sistema di governo, rompendo definitivamente quegli equilibri istituzionali, economici e sociali costruiti durante il lungo «compromesso socialdemocratico».

La destra intende rilanciare una politica di stampo liberista, attuata però da uno Stato che recuperi e coltivi l’«identità» del popolo italiano che, da quel che si capisce, implica la negazione delle diversità e di nuovi diritti civili che potrebbero inquinare l’«italianità», da un lato, e la restaurazione di mitologie e differenze localistiche, dall’altro. In sintesi, un misto di nostalgia e nuovismo, di decisionismo autoritario e populismo, di razzismo e culto della famiglia tradizionale (no migranti, no ius scholae, no aborto, no Lgbti+ e così via). Una visione basata su una sorta di liberismo protezionista, incardinato in un atlantismo euroscettico, sovranista e filo trumpiano.

Intorno alla destra si è ritrovato un blocco sociale formato da larghi strati di piccola borghesia, di ceti medi produttivi e del lavoro autonomo, di classe operaia, di ceti emarginati, e anche di nuove generazioni. Sono le preoccupazioni, la paura della crisi, il senso di delusione e di frustrazione, l’assenza di prospettiva di vita e di lavoro a fare da collante di una larga base popolare che non vede più nella sinistra un punto di riferimento.

La novità politica è che la voglia di cambiamento di questo blocco sociale si sia riversata in grande misura su Fratelli d’Italia, apparsa la forza più coesa, affidabile e meno compromessa. L’aspetto più clamoroso del risultato elettorale – insieme all’astensionismo che, con 17 milioni di non votanti, registra un incremento di 4,4 milioni rispetto al 2018 – è l’exploit del partito di Giorgia Meloni, che balza dal 4% al 26%, 6 milioni in più sul 2018. Il Pd, che alle sue prime elezioni nel 2008 – un anno dopo la sua fondazione – aveva raccolto oltre 12 milioni di voti, ora ne ha ottenuto solo 5,4 milioni, il 56% in meno. In questi numeri, al netto della pessima legge elettorale, c’è la spiegazione di tutto.

Nel Quaderni del carcere, Antonio Gramsci annota che il fascismo, nella sua ascesa al potere, si è giovato del «sovversivismo» e di un diffuso «antistatalismo primitivo ed elementare» presenti nel popolo italiano. Il fascismo, per Gramsci, ha saputo dar voce ed espressione allo scarso ethos pubblico delle classi dirigenti e alla conflittualità esasperata e politicamente arretrata radicata nella società italiana. Considerazioni di grande attualità e di cui far tesoro per comprendere le dinamiche e i processi sociali e politici che confluiscono nella vittoria della estrema destra.

Fratelli d’Italia ha catalizzato un senso di repulsa verso i partiti e l’uso clientelare e familistico del potere, premiando il partito rimasto per più tempo all’opposizione. Ha raccolto la rabbia contro la scarsa attenzione ai problemi quotidiani dei cittadini, contro disservizi ingiustificati e inefficienze intollerabili. Ha canalizzato il bisogno di cambiamento in una proposta di riforma presidenzialista del sistema istituzionale. Giorgia Meloni ha saputo interpretare uno stato d’animo in cui si mescolano frustrazioni, ribellismo, critica alle grandi multinazionali capitalistiche, e ostilità nei confronti del partito democratico individuato come unico e naturale capro espiatorio.

L’identificazione del Pd col potere – sempre e comunque – anche nella sua forma tecnocratica, ha nuociuto alla sua immagine e alla sua credibilità. Una gran parte della popolazione, spaventata dall’idea di scivolare in basso nella scala sociale, si è affidata ciecamente al capo carismatico (di turno), indicato e costruito come tale dal battage pubblicitario del sistema mediatico.

Sbaglia, a questo punto, chi a sinistra pensa di ripartire con l’ennesima ricerca e scesa in campo di qualche improbabile e presunto «leader maximo». Ritorno alla politica vuol dire una riflessione collettiva e un rinnovamento reale, la mobilitazione delle competenze di cui è ricca la società civile e la definizione di un progetto di cambiamento. Avendo sempre come bussola l’interesse generale e il bene comune, e costruendo da subito un’opposizione intelligente e intransigente nelle istituzioni e nel paese.