Analisi

Come ha fatto Vladimir Putin a silenziare il dissenso in Russia

di Maria Chiara Franceschelli   10 ottobre 2022

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Le proteste contro lo Zar sono sporadiche e poco organizzate. Perché dal 2000 il leader ha progressivamente smantellato ogni opposizione al suo potere con le leggi su Ong, agenti stranieri e fake news. Ma ci sono nuovi segnali di risveglio dalle periferie

Nella società civile russa si scorge un grande vuoto. Subito dopo il 24 febbraio, la popolazione contraria all’invasione dell’Ucraina si è riversata nelle piazze con proteste spontanee, diffuse tramite passaparola sui social, represse con violenza. Tra febbraio e marzo vi sono stati più di 15.000 arresti, spesso accompagnati da gravi abusi e infrazioni procedurali.

Prive di un centro organizzativo e coordinatore, le proteste di inizio marzo si sono pian piano affievolite sotto le violenze delle forze dell’ordine, e hanno lasciato il posto al cosiddetto guerrilla activism: “microproteste” incentrate sul piano simbolico, azioni sparse e organizzate in maniera orizzontale, senza leader né masse. Volantini anonimi, statuette, nastri, graffiti, performance e simili iniziative (celebre il caso di Alexandra Skochilenko, arrestata e torturata dopo aver sostituito i cartellini dei prezzi di un supermercato di San Pietroburgo con bigliettini denuncianti il massacro dell’esercito russo in Ucraina) sono sbocciate in molte città, a ribadire l’esistenza di un dissenso sotterraneo, che però non trova una valvola di sfogo.

Non è un caso, infatti, che le proteste contro Putin e la sua guerra abbiano seguito questa traiettoria. All’alba del 24 febbraio, la popolazione russa dissidente si è trovata priva di un’infrastruttura verso cui convergere, in grado di raccogliere e organizzare il dissenso, di fare reale opposizione extraparlamentare alle decisioni del governo, e di entrare in dialogo, o in scontro, con le élite politiche. In maniera speculare, le capacità dell’apparato repressivo del Cremlino sono ora ai massimi storici, con un apparato di pubblica sicurezza estremamente efficace, e una propaganda capillare. Questo stallo non è incidentale: è il risultato di un’operazione attenta e lungimirante durata vent’anni.

Spiega Maria Kuznetsova, portavoce di Ovd-Info, organizzazione per i diritti umani e a supporto dei prigionieri politici: «È fondamentale capire che la repressione del dissenso in Russia non è iniziata il 24 febbraio, ma nel 2000». Dal suo insediamento, Putin ha progressivamente eroso il margine di azione della società civile russa, stringendo la morsa su più fronti. Dal punto di vista legislativo, tre sono gli snodi fondamentali: la legge sulle Ong del 2006, la legge sugli «agenti stranieri» del 2012, e la legge contro le «fake news» del 5 marzo scorso.

La prima ha introdotto una serie di criteri amministrativi che, di fatto, sottopongono le Ong a costante monitoraggio e pressione da parte delle autorità. La legge consente poi lo scioglimento delle organizzazioni che rappresentano «una minaccia per la sovranità nazionale, l’integrità territoriale, l’unità e indipendenza politica e l’interesse nazionale»: una definizione vaga che dà alle autorità ampio margine di manovra.

La legge sugli «agenti stranieri» riconosce come tali enti o persone che operano su territorio russo «facendo gli interessi di Paesi terzi», o che ricevono fondi dall’estero. Ciò ha costretto molte Ong a recidere i rapporti con partner stranieri, e a rinunciare ai fondi dall’estero. Di conseguenza, molte hanno dovuto chiudere i battenti o, nella migliore delle ipotesi, reinventare la propria attività in maniera de-politicizzata, e cercare finanziamenti dallo Stato.

Infine, la legge contro le «fake news» prevede fino a quindici anni di detenzione per chi diffonde «informazioni false» sul conflitto in corso, e ha costretto molti media indipendenti a sospendere la copertura della guerra in Ucraina, lasciando carta bianca all’apparato di propaganda del Cremlino.

Oltre agli aspetti formali, la morsa sulla società civile ha coinvolto anche strategie informali, come intimidazioni, abusi e violenze. L’avvelenamento di Navalny, ad agosto 2020, ha rappresentato l’apice di questa tendenza, ma si tratta della punta dell’iceberg: prima e dopo di lui, dissidenti, giornalisti, attivisti, agitatori hanno subito incarcerazioni arbitrarie, perquisizioni, minacce e violenze, che organizzazioni come Ovd-Info e testate indipendenti come Meduza, Novaja Gazeta, Dozhd hanno documentato.

Proprio a Navalny sono legati gli ultimi episodi di mobilitazione «di massa» in Russia: la campagna mediatica contro la corruzione e le proteste a sostegno del leader, fra il 2019 e il 2021. Dopo l’arresto di Navalny nel gennaio 2021, il suo Fondo contro la corruzione (Fbk) è progressivamente collassato sotto il peso della violenza di Stato: le sedi dell’organizzazione sono state assaltate dalle forze dell’ordine, i collaboratori perseguitati.

Fbk, però, aveva già mostrato i propri limiti: con le proprie rivendicazioni di natura morale, si è sempre tenuto lontano dalle esigenze di natura strettamente economica, pur legate alla corruzione politica, che interessano gran parte della popolazione russa, soprattutto nelle aree rurali. Di orientamento liberal-nazionalista, Fbk ha escluso inoltre molti gruppi sociali, come le minoranze etniche. Questi fattori, insieme alla pressione statale e alla natura verticistica di Fbk, incentrato sulla figura del fondatore, hanno fatto sì che, col leader in carcere, il movimento perdesse la propria capacità di mobilitazione.

Altre importanti proteste di massa risalgono al 2018. In risposta all’aumento dell’età pensionistica, il Partito comunista russo (Kprf) lanciò manifestazioni in tutto il Paese. La grande affluenza spinse il presidente russo a tornare sui suoi passi, ma non si tradusse in maggiori consensi per il Kprf. Il partito rimase inscritto nei meccanismi dell’«opposizione controllata», molto frequente nelle cosiddette autocrazie elettorali, per cui in un sistema tecnicamente pluripartitico i partiti di opposizione contribuiscono in realtà a preservare gli equilibri di potere governati dalla maggioranza. Non a caso, fu proprio il leader del Kprf Gennadii Zjuganov a presentare in Parlamento la mozione per il riconoscimento dell’autonomia delle repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk, appoggiando il progetto di «denazificazione» dell’Ucraina.

Vent’anni di politiche volte a soffocare la società civile da un lato, e gli sviluppi dei principali episodi di mobilitazione recenti dall’altro: è evidente come la Russia di Putin sia stata privata di un’infrastruttura in grado di organizzare il dissenso in un fronte coeso. In questo vuoto pneumatico, però, si scorgono delle novità: le proteste contro la mobilitazione militare scoppiate negli ultimi giorni nelle aree periferiche della Russia aprono un capitolo inedito dell’azione collettiva. Spinte nuove vengono dai margini: bisognerà guardare a Dagestan, Buriazia e Jakuzia per scorgere le nuove crepe del dissenso in un Paese sempre più autoritario.