28 ottobre 2022 12:44

“In un momento di forte preoccupazione per il futuro della democrazia, la repressione delle proteste in Iran e Birmania ci ricorda quanto sia difficile opporsi ai regimi autoritari”, si legge nell’editoriale del Christian Science Monitor pubblicato su Internazionale. Tuttavia, secondo il quotidiano statunitense due esempi dimostrano che “le transizioni pacifiche sono non solo possibili, ma forse inevitabili”. I paesi in questione sono Sudan e Venezuela.

Nel paese africano la rivoluzione scoppiata nel 2018 aveva portato alla caduta del dittatore Omar al Bashir nell’aprile del 2019. Da quel momento è cominciata una difficile transizione verso la democrazia, che è stata dirottata il 25 ottobre 2021 dal colpo di stato del generale Abdel Fattah al Buhran.

Un anno fa Al Buhran ha estromesso il primo ministro Abdallah Hamdok e sciolto il governo di transizione (formato sia da militari sia da rappresentanti della società civile) proclamando lo stato d’emergenza. La dura repressione messa in atto dai militari non ha scoraggiato la popolazione, che ha continuato a scendere in strada sfidando le autorità per reclamare giustizia e un governo civile. “In Sudan i carri armati della giunta si trovano di fronte un concetto di resistenza non violenta chiamato silmiya” (pacifica, in arabo), che alcuni hanno chiamato anche “atmosfera dell’amore”. È una forma di protesta che compatta la società intorno a valori condivisi e, alla lunga, ha più probabilità di successo, osserva il quotidiano statunitense.

Prova di determinazione
Pochi giorni fa, nel primo anniversario del golpe di Al Burhan, decine di migliaia di sudanesi sono tornati a dare prova della loro determinazione partecipando a manifestazioni di protesta in ben diciannove città. Chiedevano il ritorno della democrazia e di un governo formato da civili. La polizia ha usato idranti, gas lacrimogeni e armi per disperderli, uccidendo una persona che è stata investita da un veicolo militare. I morti dall’inizio delle proteste contro la giunta militare salgono così a 119.

La pretesa di Al Burhan di “correggere il corso della rivoluzione” che aveva fatto cadere la dittatura di Al Bashir ha mostrato tutta la sua vacuità. Secondo il corrispondente di Le Monde Afrique da Khartoum, in questi dodici mesi il generale non è riuscito a consolidare il suo potere. I cittadini si rendono conto che, con i militari al governo, le condizioni economiche, di vita e di sicurezza sono peggiorate, e la corruzione all’interno dello stato è rimasta tale e quale al passato. Dopo il colpo di stato “i rubinetti degli aiuti internazionali sono stati chiusi. Più di 4,6 miliardi di dollari di finanziamenti per progetti nei settori energetico, agricolo e sanitario, così come un programma di sostegno alle famiglie povere, sono stati congelati. Per fare cassa le autorità hanno aumentato le tasse. E il carovita è stato aggravato dalla crescita al livello mondiale dei prezzi dell’energia e dei prodotti alimentari causati dalla guerra in Ucraina”.

Nel paese esistono due eserciti che cercano appoggi all’estero e sembrano destinati a scontrarsi

Da quest’estate vanno avanti dei negoziati tra i generali e una parte delle forze della società civile per un passaggio di poteri a un “governo di personalità competenti” (questa la formula usata da Al Buhran a luglio). Da settimane s’inseguono le notizie su una possibile uscita dalla crisi. Ma ci sono tre questioni che restano in sospeso: la giustizia transizionale (cioè se e come saranno puniti i responsabili della morte dei manifestanti che sono scesi in piazza contro Al Bashir e contro Al Burhan), gli interessi dell’esercito nell’economia del paese e la riforma del settore della sicurezza.

A questo proposito, un’analisi del sito Memri sottolinea la frattura interna alle forze armate. “L’esercito sembra onnipotente in Sudan, ma è un’illusione”, scrive Alberto M. Fernandez. “Può uccidere i manifestanti impunemente, controllare le grandi banche e un impero economico. Ma non è onnipotente perché di fatto ci sono due eserciti. Il primo è formato dalle forze regolari, dalle quali provengono dittatori come Al Bashir e lo stesso Al Burhan. Accanto ci sono le forze di supporto rapido, che derivano dalle milizie arabe del Darfur, i paramilitari janjawid protagonisti della sanguinosa controinsurrezione in quella regione. Il loro leader è il generale Mohammed Hamdan Dagalo, detto Hemetti”.

Entrambi gli schieramenti cercano alleati all’estero e all’interno del paese, e sembra che, alla fine dei giochi, siano destinati a scontrarsi. Secondo Arab Weekly, Al Buhran ed Hemetti hanno condotto separatamente una serie di incontri diplomatici a Mosca, al Cairo e ad Abu Dhabi, anche se entrambi sostengono di non volersi candidare a future elezioni.

Intanto, i sudanesi continuano a scandire le loro proteste e a portare avanti la loro resistenza popolare la cui intensità e capillarità, scrive la ricercatrice Nada Wanni su Al Jazeera, spesso sfugge agli occhi degli osservatori esterni. “Arriverà il giorno che non possiamo più aspettare… Il giorno in cui il sole prenderà fuoco”, si sentiva cantare nelle strade di Khartoum fino a poco tempo fa.

Questo articolo è tratto dalla newsletter Africana, la newsletter di Internazionale che racconta cosa succede in Africa. Ci si iscrive qui.

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