Indietro tutta, e appesa a un filo. Potrebbe essere così sintetizzata la parabola della premiership di Liz Truss, nata barcollante appena qualche settimana fa. La largesse fiscale con cui ha mandato in meltdown i mercati finanziari è stata precipitosamente cancellata dal nuovo ministro delle finanze Jeremy Hunt, paracadutato all’11 di Downing Street dopo che Truss aveva fatto rotolare la testa del suo predecessore Kwasi Kwarteng – reo di aver tagliato le tasse ai ricchi in perfetto unisono con lei medesima – solo per salvare la propria.

Ora il governo Truss ha le clessidre contate. Hunt ha preso sostanzialmente la mini legge di bilancio presentata dal suo predecessore il mese scorso e l’ha cestinata come un fuoriclasse del basket, facendo rifiatare la sterlina dopo che la Banca Inghilterra era dovuta intervenire direttamente a metterci una pezza comprando obbligazioni statali a go-go. Tanto che ormai alcuni dicono apertamente che il primo ministro in carica sia lui.

La gravità della situazione è misurabile direttamente nella rapidità di simili provvedimenti, solitamente ponderati, annunciati e applicati nell’arco di mesi e ora mitragliati quasi alla cieca. Ma l’emergenza ha imposto una tremebonda frenesia a tutti gli iter.

Kwarteng aveva fatto e stava disfacendo la propria legge di bilancio in tempi record, eppure nemmeno quello è bastato: è dovuto subentrare Hunt, uno che di finanza ed economia mastica pochino, per smantellare tutto, cancellare le impronte nella scena del delitto nella speranza che “i mercati” recuperassero fiducia nella solvibilità della Gran Bretagna.

Né ha giovato la goffaggine formale: lo sventurato – si fa per dire – Kwarteng è stato licenziato venerdì scorso poco prima di una conferenza stampa in cui Truss ha preso solo quattro domande per poi darsela a gambe davanti ai cronisti. Il problema non è nella solita, fatua ed irritante questione di carisma, quanto nel fatto che i Tories hanno perduto per sempre l’arma che gli ha permesso per anni di dipingersi come economicamente competenti in chiave anti-labour.

E ora il panico è diffuso: l’ex red wall diventato blu grazie a Brexit – i collegi del nord che Johnson aveva strappato ai laburisti – tornerà quasi certamente rosa. Svariate neo poltrone di conservatori sono già in bilico. In una pedissequa riedizione del copione Tory di assassinio della propria leadership, un numero sempre crescente di deputati è uscito allo scoperto e ha chiesto pubblicamente a Truss di farsi da parte. L’arrivo di Hunt le ha forse guadagnato del tempo, ma è difficile dire quanto, a prescindere dal fatto che ne ha comunque nullificato la rispettabilità residua. Che era pochina già all’inizio, visto che Truss sta a Downing Street per volontà di meno di duecentomila iscritti apertamente di destra. Nel partito si parla palesemente di cambiare le regole che la vorrebbero al sicuro per un anno e iniziare l’ennesima corsa alla premiership interna. Ma sarebbe la terza volta in cinque anni e il paese, forse, se ne accorgerà. Senza contare che i sostenitori di Truss minacciano di portarlo alle elezioni anticipate, in una rappresaglia in cui Sansone morirebbe con tutti i filistei.

Una cosa è certa. I Tories si adattano al ritmo esponenziale con cui i disastri ci piovono addosso e sbocciano intorno, dal riscaldamento globale alle pandemie, dalle crisi economiche alle guerre: laddove Theresa May e Boris Johnson hanno impiegato anni e mesi ad autodistruggersi, alla “libertaria” Truss bastano evidentemente pochi giorni.