Illustrazione di Alice Iuri

Splende il sole e l’aria è tersa, ma è un lunedì con poca gente in giro nel centro di Imola. Passano un paio di bici tra piazza Gramsci e piazza Matteotti, e una donna che si rivolge in arabo a Khadija Ait Oubih: vuole farle gli auguri, mi spiega.

Ait Oubih, nata a Casablanca nel 1973, è la presidente di Trama di terre, associazione di donne native e migranti, diventata nel tempo un centro interculturale, un centro antiviolenza aderente alla rete DiRe (Donne in rete contro la violenza), uno sportello lavoro e accoglienza abitativa per donne sole e con figlie e figli. Da 25 anni Trama è un punto di condivisione femminista tra donne di diverse età e provenienze, geografiche, culturali e sociali. E dopo il ricambio generazionale avvenuto con il passaggio di presidenza da Tiziana Dal Pra, del nucleo fondativo, ad Alessandra Davide, per la prima volta ha preso il testimone una donna immigrata e musulmana.

Andiamo a mangiare da Otello, una caffetteria con cucina che l’8 marzo 2022 ha ospitato Voyager, mostra organizzata da Trama con i dipinti di una donna che, anche con l’aiuto dell’arte, sta uscendo da un vissuto di violenza. Quando entriamo alcuni sguardi femminili virano dritti su di lei. Ait Oubih indossa un hijab dai colori pastello che le incornicia il volto, i suoi grandi occhi nocciola brillano mentre mi dice: “L’unica cosa che temo è questa, di non essere vista per quello che sono ma per il velo che indosso”.

Una straniera

Mediatrice culturale di professione e autodeterminata per vocazione, Ait Oubih racconta come è arrivata a essere la donna che è oggi: “Ho accettato un matrimonio combinato ma senza costrizione a 17 anni, ero molto giovane e ho pensato che potesse funzionare. Sono arrivata in Italia nel 1991 dopo il diploma, per ricongiungermi con mio marito che era in Italia da tempo. Ho capito presto che non sarei stata felice e a vent’anni ho chiesto il divorzio”. La famiglia d’origine le è stata accanto anche in quella scelta: “Mia madre, orfana e analfabeta, ha sempre voluto che noi figlie fossimo autonome e studiassimo. Lo diceva più a noi che ai nostri fratelli. Lei indossava il niqab, il velo che lascia scoperti solo gli occhi, eppure non ci ha mai obbligate a fare qualcosa che non volevamo. È stato un insegnamento potente, sono cresciuta in Marocco senza sapere nulla del femminismo o delle lotte delle donne, ma consapevole che potevo scegliere quello che desideravo”.

Mangia lentamente, il movimento con la forchetta accompagna il racconto, anche nel soppesare alcune parole: “Appena arrivata qui, giovane e con i miei riccioli al vento, davo poco peso agli apprezzamenti anche sessisti che ricevevo. Ho cominciato subito a studiare l’italiano, il primo corso l’ho fatto in una parrocchia con una classe mista. I primi corsi per sole donne li ha organizzati Trama, e se fosse per me li renderei obbligatori. Molte migranti non li frequentano e poi si ritrovano senza lo strumento essenziale per affrontare anche semplici incombenze quotidiane”.

È grazie alla lingua italiana che ha conosciuto il razzismo: “In Marocco non lo percepivo. Nel nostro paese le persone straniere non ci fanno paura e l’ospitalità è fondamentale, viene prima del senso di appartenenza anche alla propria famiglia. Quando ho cominciato a capire le battute sugli italiani del sud o del nord, a sentir dire ‘marocchino’ in senso dispregiativo, a trovarmi in situazioni in cui non mi veniva offerto neanche un bicchiere d’acqua, ho capito come stavano le cose. Mi sono decisa a chiedere la cittadinanza per non dover andare ogni due anni in questura, ma non riesco a sentirmi pienamente italiana, sento di essere una cittadina di serie B. Quattro anni fa mi ha fermato un poliziotto e insisteva nel chiedermi il permesso di soggiorno nonostante gli mostrassi la carta d’identità. Ai suoi occhi ero una straniera. Punto.”

In equilibrio

Comunicare è diventato il suo lavoro: il dialetto arabo che si parla nel suo paese e in tutto il Maghreb ha molte parole in comune con l’arabo parlato dalle donne che arrivano dal Libano, dall’Iraq, dalla Somalia, per cui può avviare una prima mediazione e capire di cosa hanno bisogno. Un lavoro delicato, per il quale ha ricevuto anche minacce, aggressioni non solo verbali, fino alle denunce e alle cause in tribunale. “Perché mediare con le donne significa togliere potere ai maschi. Quando ho cominciato a lavorare nei servizi sociali, prima di diventare mediatrice per Trama, le persone storcevano il naso, perché prima di me c’era stato un mediatore: fino all’inizio degli anni duemila i migranti erano in maggioranza uomini e c’erano solo uomini a fare da interpreti. Per di più ero giudicata male anche dalle famiglie o dalle comunità con cui lavoravo, perché ero non solo donna, ma anche divorziata e senza velo”.

Non possiamo più girarci attorno, la domanda è d’obbligo e Ait Oubih non esita a rispondere: “Ho deciso di indossare il velo anni fa. Dopo un’operazione alla schiena, mi sono ritrovata con la mia interiorità e ho sentito che volevo farlo, mi mancava per sentirmi bene con me stessa. È stata una mia scelta, nessun uomo me lo ha imposto. All’epoca ero sola, avevo lasciato anche il padre di mia figlia che è cresciuta con me. Oggi è una ventenne che non porta il velo”.

Le faccio notare che accanto a lei, che ha potuto scegliere di indossarlo, ci sono donne a cui il velo è stato imposto che rischiano la vita per toglierlo. In questo caso da che parte sta? “Sto accanto a queste donne, perché è vero che nel Corano c’è scritto che dovremmo metterlo, ma non c’è scritto che le donne che non lo indossano devono essere perseguitate o uccise. Trama insegna che le donne che arrivano con il velo possono scegliere cosa fare”.

È forse per questo suo stare in equilibrio tra militanza, religione e libera scelta che Ait Oubih preferisce essere chiamata attivista per i diritti delle donne anziché femminista. “Da quando lavoro con le donne per le donne l’attivismo mi è entrato nel sangue e non posso farne a meno. Continuerò a presidiare i diritti conquistati di cui godiamo tutte, me compresa”.

E com’è gestire anche il potere di una presidenza? “Ho accettato l’incarico per continuare a contrastare l’intreccio di razzismo e sessismo che le donne subiscono, sono pronta al dialogo con tutti perché vorrei combattere gli stereotipi e i pregiudizi anche sui nostri veli, non sono una fondamentalista, il velo copre la mia testa, non il mio cervello”.

Il conto

Otello
Via Emilia 166, Imola

1 bowl di riso venere, curry, pollo e verdure €11,00
1 bowl di riso basmati con gamberi e verdure in agrodolce €11,00
2 calici di Lugana €10,00
2 torte Tenerina con panna €8,00
Acqua, caffè, coperto per due €10,00

Totale €50,00


Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it