Nella sede di Unite Here a Phoenix ferve l’attività. Oltre 500 volontari giunti da molti stati, soprattutto dalla confinante California hanno ricevuto oggi le istruzioni per le ultime ronde porta a porta per assicurare l’affluenza degli elettori – elemento strategico per un successo democratico. Il sindacato rappresenta milioni di lavoratori alberghieri e del ristoro, mi spiega Beatriz Topete, coordinatrice della campagna. Lei, originaria di Los Angeles, è sindacalista da 25 anni, ha organizzato lavoratori in California e alle Hawaii ma dal 2019 è nella capitale dell’Arizona. «Quando ha vinto Trump – dice – ho chiesto di essere trasferita qui, dove infuria la lotta».

L’ARIZONA è certamente in prima linea nella contesa politica fra democratici e repubblicani che dall’avvento del trumpismo ha assunto i toni di una battaglia finale per le sorti della democrazia. È qui ad esempio che durante le tre settimane di voto anticipato, gli elettori che depositavano le proprie schede nei seggi di Mesa e Maricopa county sono dovuti passare davanti a drappelli di persone armate ed in tuta mimetica che li riprendevano con telecamere. Ci sono voluti numerosi ricorsi in tribunale per allontanare gli “osservatori” ma la vicenda ha confermato che lo stato è uno degli epicentri dell’intimidazione e della disinformazione su cui ha fatto perno la campagna repubblicana. I vigilantes elettorali fanno capo ad una formazione denominata Clean Elections Usa, sedicenti fautori dell’”integrità elettorale” con legami alla corrente Maga del partito repubblicano ed ai negazionisti che sostengono tuttora che Biden abbia “rubato” a presidenza a Trump con la frode.

L’Arizona non è nuova a tutto questo, nel 2020 lo stato tradizionalmente repubblicano rappresentò uno smacco per il Gop quando prevalse Biden con un margine di 11.000 voti. Trump e la sua squadra presentarono allora numerosi e vani ricorsi e lo stato divenne punto focale del complottismo grazie alle pressioni di gruppi come Turning Point Usa, una sorta di fronte della gioventù trumpista con sede a Phoenix che ha spinto per indurre la mutazione del partito di Barry Goldater e John McCain – simboli locali del conservatorismo tradizionale – in fautore di un fanatismo intransigente. In stretto coordinamento con Trump, Turning Point Usa ha promosso leggi per sopprimere il voto di minoranze e lavoratori, ottenuto l’epurazione di funzionari “sleali” e sponsorizzato candidati fautori della “grande menzogna”.

NELL’ APRILE DEL 2021 il parlamento dello stato, dominato ormai da repubblicani oltranzisti, appaltò un’ennesima verifica dei voti affidandola ad una società “specializzata” denominata Cyber Ninjas. La ri-verifica delle schede durò molte settimane ancora senza vere prospettive ma con la funzione di mantenere vivo il sospetto della base, utile per confutare eventuali nuovi esiti sfavorevoli.

E sulla bufala dei «vasti brogli» sono state imbastite le campagne dei candidati trumpisti che in Arizona puntano ad un paio di cariche determinanti per gli equilibri politici dei prossimi due anni. La candidata a governatrice Kari Lake è una ex anchor woman, radicalizzata no vax che denuncia tutt’oggi il «furto» delle elezioni, sostenendo che il l’unico risultato che accetterà domani sarà quello della propria vittoria. Il suo programma, dietro l’involucro patinato da telegiornalista, è una fotocopia del repertorio trumpista (muro di confine, deportazione in massa degli immigrati, divieto di aborto). Qui i democratici difendono inoltre un seggio cruciale per il senato, quello dell’ex astronauta Mark Kelly, insidiato da Blake Masters, giovane ultraconservatore finanziato da Peter Thiel, già fondatore di PayPal e con il collega Elon Musk uno dei decani reazionari di Silicon Valley.

COME ALTRI STATI della Sun Belt del sudovest l’Arizona dipende da un’economia basata su turismo e terziario ed una forbice demografica divisa fra anziani pensionati bianchi e giovane forza lavoro ispanica (oggi il 30% della popolazione) e concezioni sempre più divergenti del sogno americano. Come gli altri stati “in bilico” l’Arizona è uno stato “viola” che il Gop vorrebbe riprendersi e aggiungere ai red states secessionisti come Florida e Texas, roccaforti radicalizzate di politica post-conservatrice.

L’Arizona è anche lo stato che ha dato i natali a Cesar Chavez, leader negli anni 60 e 70 delle lotte campesine dei giornalieri importati dal Messico per lavorare nei campi agricoli della Imperial Valley e del paniere californiano. La sinistra sindacale conta sulla stessa organizzazione di base per tenere la linea. Nel 2020 la mobilitazione di Unite Here fu strumentale per strappare la vittoria di misura. Subito dopo gli organizzatori si sono spostati in Georgia, incassando in quello stato un altro successo senza precedenti: l’elezione di due senatori democratici. Quest’anno però la strada si preannuncia in salita. «La controparte è più organizzata – mi dice Beatriz Topete – Abbiamo trovato più resistenza, alcuni dei nostri sono stati minacciati di violenza fisica».

Nelle ultime settimane il sindacato ha inviato in Arizona un flusso continuo di organizzatori per motivare elettori democratici. «Abbiamo bussato a mezzo milione di porte e parlato faccia a faccia con oltre 100.000 potenziali elettori – spiega Brendan Walsh, responsabile della campagna nella provincia di Phoenix, dove si concentra oltre il 60% dell’elettorato – La crisi di democrazia a cui assistiamo rappresenta una minaccia diretta per i nostri sindacati. Il programma del nuovo partito repubblicano si fonda su intimidazione e soppressione. Se vogliamo salvare la democrazia dobbiamo iniziare qui».

DOPO IL VOTO di due anni fa Phoenix fu teatro di manifestazioni di trumpisti e miliziani che cinsero d’assedio i seggi per denunciare «brogli». È un copione che potrebbe facilmente ripetersi, soprattutto se lo spoglio dovesse andare per le lunghe. L’Arizona, come il resto del paese, trattiene il respiro.