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Immigrazione, chi arriva e lavora in Italia produce ricchezza, ma diventano sempre più poveri

Immigrazione, chi arriva e lavora in Italia produce ricchezza, ma diventano sempre più poveri
Lavorano in condizioni peggiori, sono più sovraistruiti e sottoccupati, ma contribuiscono in misura rilevante all’economia del Paese, con un saldo positivo di 1,3 miliardi di euro per le casse dello Stato. Il Dossier Statistico Immigrazione 2022
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ROMA - Lavorano in condizioni peggiori, sono più sovraistruiti e sottoccupati, ma contribuiscono in misura rilevante all’economia del Paese, con un saldo positivo di 1,3 miliardi di euro per le casse dello Stato. E restano largamente esclusi da molte prestazioni sociali, pur avendo un tasso di povertà 4 volte superiore a quello degli italiani. Se venissero impiegati meglio assicurerebbero vantaggi ancora più alti all’economia nazionale. Sono le anticipazioni del Dossier Statistico Immigrazione 2022,
a cura di IDOS, in collaborazione con Centro Studi Confronti e Istituto di Studi Politici “S. Pio V

Un part-time volontario. In Italia gli stranieri incidono più tra i lavoratori (10,0%: 2.257.000 occupati su un totale nazionale di oltre 22,5 milioni nel 2021) che tra la popolazione nel suo complesso (8,8%: 5.194.000 residenti su una popolazione totale di 59 milioni) e, rispetto al 2020, tra gli occupati sono cresciuti del 2,4%. Inoltre, sebbene siano impiegati per un numero di ore più basso rispetto a quelle che sarebbero disponibili a lavorare (il 19,6% degli occupati stranieri lavora in part time involontario – il 30,6% tra le sole donne – contro 10,4% degli italiani) e in lavori demansionati rispetto al livello di formazione acquisito (ben il 63,8% svolge professioni non qualificate o operaie e la quota di sovraistruiti è del 32,8% – 42,5% tra le sole donne – contro il 25,0% degli italiani), continuano a sostenere in misura rilevante l’economia nazionale.
 
Pagano le tasse, consumano e versano contributi. Da una parte, infatti, vivendo e lavorando in Italia, gli immigrati pagano le tasse, consumano e versano contributi: nel 2020 hanno pagato 5,3 miliardi di euro di Irpef, 4,3 miliardi di Iva, 1,4 miliardi di Tasi e Tari, 2,2 miliardi di accise su benzina e tabacchi, 145 milioni di euro per le pratiche di acquisizione di cittadinanza e di rilascio/rinnovo dei permessi di soggiorno. Inoltre, tra comunitari e non comunitari, hanno versato 15,6 miliardi di euro di contributi previdenziali, contribuendo al sistema pensionistico italiano. Ne deriva che il saldo netto tra uscite economiche (28,9 miliardi) ed entrate (30,2 miliardi) legate all’immigrazione è stato ancora una volta positivo di circa 1,3 miliardi di euro a vantaggio delle casse dello Stato.
 
Fanno impresa. Dall’altra parte, gli stranieri in Italia continuano sempre più a fare impresa: le attività imprenditoriali a conduzione immigrata (642.638) costituiscono un decimo del totale (10,6%) e sono cresciute dell’1,8% (+11.481) rispetto al 2020, continuando un trend di ininterrotta espansione pure negli anni di crisi e di pandemia. A ciò bisogna aggiungere che gli immigrati svolgono un’ampia gamma di lavori imprescindibili: sono il 15,3% degli occupati nel settore degli alberghi/ristoranti, il 15,5% nelle costruzioni, il 18,0% in agricoltura e ben il 64,2% nei servizi alle famiglie, dove quasi i due terzi degli addetti sono stranieri. Tutti settori che, in assenza di manodopera straniera, entrerebbero in profonda crisi. Nel caso dell’assistenza alle persone, la gran parte delle famiglie italiane con anziani, minori o disabili sarebbero più sole e prive di aiuto.
 
Esclusi dal benessere collettivo. Eppure, sebbene contribuiscano in maniera irrinunciabile al benessere collettivo, ne restano sempre più esclusi. Nel 2021 gli stranieri in condizione di povertà assoluta sono saliti, in Italia, a oltre 1 milione e 600mila (+100.000 rispetto al 2020), il 32,4% di tutti quelli residenti in Italia, una quota oltre 4 volte superiore a quella degli italiani (7,2%). E la percentuale di famiglie che non riescono a soddisfare i bisogni essenziali è del 26,3% tra i nuclei misti (con almeno uno straniero) e sale al 30,6% tra quelle di soli stranieri: 5 volte in più che tra le famiglie di soli italiani (5,7%). Anche la povertà relativa, legata alla capacità di spesa e perciò alla disuguaglianza sociale, colpisce molto più gli stranieri che gli italiani: nel 2021 ha riguardato in tutto 2,9 milioni di famiglie (l’11,1% del totale) ma, rispetto al 2020, l’incidenza di quelle che si trovano in tale stato è passata, tra i nuclei di soli italiani, dall’8,6% al 9,2%; tra quelli misti, dal 26,5% al 30,5%; e, tra quelli di soli stranieri, dal 25,7% a 32,2%, una quota oltre 3 volte superiore a quella delle famiglie di italiani.
 
Gli stranieri in totale povertà sono 3 su 10.  Ma, pur in queste maggiori condizioni di indigenza, accedono molto meno degli italiani alle prestazioni di assistenza sociale (mense, trasporti, case popolari, misure di sostegno al reddito ecc.), da cui vengono esclusi attraverso l’introduzione di requisiti illegittimi e arbitrari, da parte di Comuni e istituzioni, come il possesso di un permesso di lungo-soggiorno e una residenza anagrafica almeno decennale. Sono questi i vincoli che hanno limitato ad appena il 12% la quota di stranieri tra i beneficiari del Reddito di cittadinanza, la principale misura nazionale di contrasto alla povertà economica, sebbene gli immigrati siano 3 ogni 10 poveri assoluti in Italia e questa indigenza sia, tra le loro famiglie, 5 volte superiore rispetto ai nuclei italiani.
 
Segregazione occupazionale. Ancora oggi, da decenni, vigono per gli stranieri un modello di segregazione occupazionale (per cui lavorano sempre negli stessi pochi comparti, secondo una rigida ripartizione non solo di nazionalità ma anche di genere: le donne per lo più nei servizi domestici e di cura, il 38,2%, e gli uomini nell’industria e nell’edilizia, il 42,4%), una mobilità occupazionale bloccata (anche per chi ha una formazione elevata e tanti anni di attività) e una condizione di estrema precarietà (tra lavoratori a termine, contratti di apprendistato intermittenti e part-time involontari, la quota di lavoratori “non standard” tra gli stranieri è del 34,3% - il 41,8% tra le donne – contro il 20,3% degli italiani). 
 
Sottooccupati e nell'area del "nero". “Eppure – sostiene Luca Di Sciullo, presidente del Centro Studi e Ricerche IDOS – se si consentisse loro non solo di lavorare più ore regolarmente, visto che la sottoccupazione cela spesso un contestuale impiego in nero, ma anche di accedere a professioni di più alta qualifica, con contratti più stabili e tutele effettive, sarebbe valorizzato un potenziale ancora oggi mortificato, sebbene quanto mai prezioso in questa fase di crisi globale. Un potenziale che gioverebbe, oltre che agli immigrati, all’intero sistema Paese, dal momento che diminuirebbe l’economia sommersa e l’evasione, aumenterebbe ancor più il gettito in tasse e contributi, renderebbe più transnazionale e competitiva l’economia italiana”.