Due del pomeriggio. Una folla di centinaia di persone si raduna di fronte al Sindacato nazionale dei giornalisti tunisini, nel cuore della capitale. Un luogo che da giorni vive con profonda inquietudine le sorti del suo presidente Mohamed Yassine Jelassi, quando gli è stata recapitata una denuncia per aggressione a pubblico ufficiale dopo avere partecipato a una manifestazione pacifica per i diritti civili nel luglio 2022. Nel frattempo le persone sono diventate poco più di un migliaio e cominciano una lunga marcia verso il Teatro municipale di avenue Habib Bourguiba, l’epicentro di ogni rivendicazione in Tunisia.

I CORI PERÒ NON SONO a sostegno di Jelassi, nonostante la gravità di quanto successo, bensì a favore dei 21mila subsahariani presenti nel paese, la grande maggioranza in una situazione di irregolarità (i dati sono del Forum tunisino per i diritti economici e sociali). Convocata dalla rete antifascista di Tunisi, la manifestazione assume da subito rivendicazioni molto precise: «Nessuna paura, nessun terrore, le strade appartengono al popolo!». O ancora: «Solidarietà ai migranti senza documenti».

Il motivo della mobilitazione è presto detto. Il 21 febbraio scorso, durante una riunione del Consiglio di sicurezza, il presidente della Repubblica Kais Saied ha pronunciato un discorso molto duro nei confronti dei subsahariani: «Esiste un piano criminale per cambiare la composizione demografica della Tunisia, ci sono alcuni individui che hanno ricevuto grosse somme di denaro per dare la residenza ai migranti subsahariani. La loro presenza è fonte di violenza, crimini e atti inaccettabili, è il momento di mettere la parola fine a tutto questo perché c’è la volontà di fare diventare la Tunisia solamente un paese africano e non un membro del mondo arabo e islamico».

STAVOLTA CAPIRE I MOTIVI che hanno portato a simili parole è molto più complicato, anche perché da quando Saied è diventato uno dei volti noti del dibattito pubblico tunisino, il fenomeno migratorio interno non è mai stato un punto all’ordine del giorno nell’agenda del responsabile di Cartagine. Sono tuttavia evidenti le conseguenze del suo discorso.

Secondo l’organizzazione Avocats sans frontières (Asf), sono centinaia le aggressioni subite da cittadini di origine subsahariana. Per aggressioni si intende rastrellamenti casa per casa da parte dei proprietari per cacciare le persone dalle proprie abitazioni, intimidazioni per strada e online, attacchi fisici con armi da taglio e non solo, licenziamenti in tronco da posti di lavoro che prevedevano semplici regole di sfruttamento, incendi dolosi appiccati di fronte alle residenze e arresti arbitrari (fenomeno in crescita: secondo Asf, 700 negli ultimi venti giorni).

TUTTO QUESTO HA PORTATO di fatto la popolazione di origine subsahariana a chiudersi nelle proprie abitazioni, da Tunisi al profondo sud del paese. E, nel momento in cui la casa non esistesse più a seguito di un rastrellamento, la società civile ha attivato un sistema di assistenza per ospitare le persone in difficoltà.

Non è un caso che alla mobilitazione di ieri i manifestanti di origine subsahariana fossero quasi del tutto assenti lasciando alle tunisine e ai tunisini lo spazio per dire «basta a questo regime fascista». E non è neanche un caso che uno dei momenti più emozionanti sia stato quando il corteo ha incrociato quattro ragazze subsahariane affacciate dal balcone di uno dei tipici palazzi decadenti del centro di Tunisi.

LE PAROLE DEL PRESIDENTE della Repubblica hanno da subito suscitato forti prese di posizioni. In primis dall’Unione africana: «Invitiamo la Tunisia ad astenersi da qualsiasi discorso di odio di carattere razzista e che possa nuocere alle persone. Condanniamo fermamente le dichiarazioni scioccanti fatte dalle autorità tunisine contro i compatrioti africani, le quali vanno contro lo spirito della nostra organizzazione e i nostri principi fondatori». Altrettanto immediata è stata la reazione del ministro degli Esteri Nabil Ammar: «Sono delle accuse che rifiutiamo. La migrazione illegale pone dei problemi in tutti i paesi. Il fatto di riconoscere che sia un problema non vuole che si tratti un discorso di odio».

Dall’altra parte del Mediterraneo, per il momento l’Unione europea ha preferito il silenzio. E c’è chi invece ha applaudito al discorso del presidente: «Gli stessi paesi del Maghreb cominciano a suonare l’allarme di fronte alla deriva migratoria. La Tunisia ha deciso di prendere provvedimenti urgenti per proteggere il suo popolo. Cosa aspettiamo a lottare contro il grande rimpiazzamento?», si è chiesto Eric Zemmour, fondatore del partito di estrema destra Reconquête e candidato alle elezioni presidenziali francesi del 2022.

Al di là di quello che succederà nelle prossime settimane in Tunisia, dove il clima di incertezza aumenta quotidianamente, Kais Saied ha giocato la carta dell’immigrazione subsahariana sapendo di premere un tasto scoperto della società tunisina: il razzismo, un argomento rimasto tabù per anni, ora è diventato di pubblico dominio ed è aumentato con l’aggravarsi delle condizioni economiche e sociali.

I PROBLEMI DEL PAESE però non finiscono qui. Parallelamente alla questione degli abusi e delle violenze nei confronti della comunità subsahariana, da settimane si fanno sempre più incessanti le notizie riguardo agli arresti di natura politica. Giornalisti, attivisti e politici di primo piano sono finiti nel mirino della giustizia «per avere attentato alla sicurezza dello Stato». Modalità che a diversi analisti hanno ricordato i metodi utilizzati all’epoca del despota Zine El-Abidine Ben Ali. L’ultimo arresto a risuonare fortemente per le strade di Tunisi ha coinvolto Jahouar Ben M’Barek, uno dei leader del Fronte di salute nazionale che ha guidato gran parte delle proteste contro il presidente della Repubblica dopo il colpo di forza del 25 luglio 2021, quando ha azzerato il governo e congelato il parlamento. A fare notizia è che il giorno prima era stato fermato suo padre, il leader della sinistra storica tunisina Ezzeddine Hazgui.

In Tunisia è in corso il dibattito se le mosse di Saied siano dettate dall’esigenza di distogliere l’attenzione dai risultati deludenti delle ultime elezioni parlamentari (a partecipare è stato solo l’11% della popolazione). Quello che è certo, è che da un giorno all’altro la Tunisia ha cominciato a respirare un vento denso di paura.