Le ristrettezze economiche che bloccheranno l’azione del governo Meloni, e l’odio contro i poveri, hanno spinto ieri Matteo Salvini a suggerire la prima mossa contro il «reddito di cittadinanza». Dagli oltre otto miliardi di euro necessari per finanziare ogni anno il sussidio il leghista vorrebbe prendere, al momento, un miliardo per finanziare la pensione chi ha raggiunto 61 anni di lavoro e versato 41 anni di contributi. «Il miliardo lo recupereremo sospendendo per sei mesi il reddito di cittadinanza a quei 900 mila percettori che sono in condizioni di lavorare e che già lo percepiscono da 18 mesi» ha detto il vicepremier e ministro leghista delle infrastrutture nel prossimo libro di Bruno Vespa.

È DA VEDERE se coloro che hanno percepito il «reddito» per 18 mesi (rinnovabili per altri 18) sono davvero «900 mila» sugli attuali 2,3 milioni. L’obiettivo comunque è dimezzare la platea del «reddito». È a questo che punta anche Fratelli d’Italia. Alcuni suoi esponenti hanno parlato di un taglio annuo di 3 miliardi di euro da girare alle imprese in cambio di assunzioni. Eventualità problematica in un momento in cui il paese entra in recessione, le politiche attive del lavoro non hanno possibilità di decollare, se non in alcune regioni, mentre il lavoro – se esiste – è in maggioranza precario.

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SE PASSASSE la proposta di Salvini questo sarebbe un altro modo per acuire le contraddizioni di «quota 100». Secondo un rapporto Inps-Upb, il bilancio della misura voluta dal governo Conte 1 (Lega+Cinque Stelle) tra il 2019 e il 2021 ha avuto poche adesioni: 380 mila lavoratori in pensione (dovrebbero crescere fino a 450 mila) sui 678 mila stimati. È costata 20 miliardi di euro fino al 2026 (e non 11 come ha sostenuto Salvini). E non ha creato «nuova» occupazione. Secondo la Corte dei Conti c’è stato meno di un assunto ogni due in pensione con «quota 100». Fallita anche la successiva «quota 102»: 3.860 domande in cinque mesi quest’anno. La stima era di 23.500. L’equivoco sulla sostituzione proporzionale tra pensionati e giovani ricomincerà con la proposta della neo-ministra del lavoro Marina Calderone che intende evitare la pensione a 67 anni prevista dalla legge Fornero. Si vogliono mandare in pensione 470 mila lavoratori tra i 61 e i 66 anni con 35 anni di contributi. Salvini vorrebbe anche mantenere in servizio i medici in età da pensione con lo stipendio maggiorato di una parte dei contributi. Visti i tempi di magra sono in pochi ad accettare di perdere soldi rispetto all’ultimo stipendio.

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COMUNQUE ANDRÀ, questi primi annunci rivelano che l’estrema destra leghista e post-fascista muore dalla voglia di farla finita con il «reddito di cittadinanza». E non vede l’ora di fare scontare la povertà ai poveri che portano lo stigma di non volere lavorare e non sono in grado di diventare «imprenditori di se stessi». Il caso è paradigmatico della «Melonomics»: il governo è reso impotente dai vincoli esterni e dalla policrisi capitalistica, mette gli ultimi contro i penultimi, li obbliga a concorrere per appropriarsi di risorse scarse, mentre le multinazionali dell’energia e le banche continuano a macinare profitti record sulla crisi energetica in corso senza essere tassate al 100%.

LA CGIA si è domandata ieri dove il governo prenderà le risorse anche per finanziare i bonus contro il caro-energia ai quali sarebbe destinato il 75% delle risorse pari, sembra, a una cifra che oscillerebbe tra i 30 e i 40 miliardi di euro. A meno di una sorpresa dal dato sul pil domani Meloni potrebbe disporre di 15 miliardi di euro, di cui 10 lasciati in «eredità» dal governo Draghi e altri 5 che dovrebbero giungere dall’Ue. Una cifra insufficiente per sterilizzare l’aumento dei costi previsto fino a dicembre. Ci sarebbero gli extra-profitti delle aziende che hanno lucrato sull’emergenza energetica. Il governo starebbe riscrivendo la norma di Draghi. «La facciano meglio, tassando non al 25% – ha suggerito il segretario generale della Cgil Maurizio Landini – Sto parlando di 40 miliardi da imprese energetiche, banche, assicurazioni e aziende farmaceutiche». Se lo scostamento di bilancio è escluso, perché l’esecutivo non vuole creare nuovo debito, e le «spending review» nei ministeri è un altro specchietto per le allodole, allora vedremo il governo raschiare il fondo del barile. Si parla di rivedere il bonus edilizio del 110%, di una «web green tax» che consisterebbe in una tassa su chi effettua consegne a domicilio senza utilizzare mezzi non inquinanti. Insomma misure cosmetiche o irrilevanti. E nel 2023 si prevedono altri decreti per sostenere famiglie e imprese travolte da inflazione e recessione.

C’È UN RISCHIO, evidenziato dalla Cgia: l’ipotesi disastrosa dei tagli alla spesa pubblica. È questo il collo di bottiglia in cui si sta infilando il governo Meloni.