Una coperta di lana, due stivaletti di pelle neri e un rivolo di sangue. È tutto ciò che si vedeva del corpo minuto di Inna ieri mattina a Kherson accanto all’ingresso della Croce rossa. Il più pesante bombardamento russo alla città da almeno una settimana a questa parte ha colpito in uno dei punti più fragili possibili, dove le persone sono costrette a palesare la propria condizione di bisognosi.

Svegliarsi alle sei del mattino per correre di fronte a un cancello di ferro chiuso, discutere con gli altri per chi è arrivato prima, restare ore in piedi in attesa, nonostante il freddo, la pioggia o la neve non può che far scivolare il volto che ogni giorno portiamo e vestirci di una maschera. Che è la stessa che indossano tutti i civili quando si scoprono osservati a reclamare del cibo in scatola o un pasto caldo.

ACCADE TUTTI I GIORNI, in tutte le città in guerra, o almeno in quelle dove gli aiuti umanitari riescono ancora ad arrivare. Le madri portano i figli più grandi e li fanno mettere in fila qualche metro indietro per cercare di ottenere una doppia razione, gli anziani portano i carrellini con le ruote perché non ce la fanno, chi arriva tardi cerca di sobillare gli altri ritardatari a una rivolta che dura finché il volontario o la volontaria di turno ha pazienza e poi si infrange su una porta chiusa.

«Non possiamo farci niente, abbiamo 100 pacchi al giorno ed è tutto ciò che possiamo dare, abbiamo bisogno di programmare, capisci?» provava a spiegare Inna qualche giorno fa a chi si lamentava di fronte alla Croce rossa.

MA CONCETTI COME programmazione o organizzazione sono senza senso per chi ha fame. «Io ho fame ora, non tra due giorni, perché non puoi darmi un pacco, uno solo, cosa ti costa, so che li avete» è più o meno quello che dicono tutti e non gli si può dare torto in nessun modo. Inna provava a rispondere a tutti e restava ben oltre la chiusura delle distribuzioni a spiegare perché e a prendere nomi su un registro.

Chissà perché la burocrazia in certi casi tranquillizza, sapere di essere in una lista rende in qualche modo sicuri di qualcosa che dovrà succedere, «c’è il mio nome lì» e quindi si accetta il rifiuto di oggi in nome di un qualche diritto domani. Non è uno scherzo. Avere a che fare con migliaia di persone di una città diventata, insieme a Bakhmut nel Donbass, il centro degli attacchi russi è un’impresa titanica.

In un contesto così delicato avevamo appuntamento con Yuri, il capo della Croce rossa di Kherson, alle 10 di ieri, per seguire un’evacuazione di una coppia di anziani verso la stazione ferroviaria, quella dove sono arrivati i famosi «treni della libertà» tanto pubblicizzati i primi giorni dopo la liberazione della parte ovest della città.

Nikoletta, la ragazza ucraina che lavora con noi come interprete era andata a parlarci non appena arrivati, qualche minuto prima dell’orario concordato. Era tornata spiegandoci che a causa del gran numero di persone che si erano presentate ieri mattina per i pacchi alimentari l’evacuazione sarebbe partita 15 minuti in ritardo. Il collega che è con me a quel punto le ha chiesto se non volessimo usare quel tempo per andare al supermercato, Nikoletta gli aveva detto che aveva bisogno di comprare delle cose ma «non c’era fretta».

Nonostante le sue educate rimostranze per non disturbare il lavoro siamo partiti. Il supermercato in questione dista circa 3 minuti in macchina dall’edificio della Croce rossa. Nikoletta è entrata dicendo che avrebbe fatto in un lampo, noi aspettavamo fuori.

Dopo poco i vetri della macchina hanno iniziato a tremare, con boati e suoni simili a un ripetuto scroscio di tuoni. Alcune esplosioni erano tanto vicine da essere accompagnate dai sibili della scia. Siamo tutti corsi verso l’interno del supermercato mentre due militari lì per caso urlavano «bombe a grappolo, correte!».

DATO CHE il supermercato non ha sotterranei, non appena l’aria si è fatta di nuovo silenziosa abbiamo deciso di tornare in fretta verso la Croce rossa. In tutto, da quando ci eravamo allontanati non erano passati neanche 10 minuti. Quando siamo arrivati, esattamente nella stessa posizione in cui eravamo parcheggiati poco prima, abbiamo notato una coperta a terra sul marciapiede e la strada vuota. Una donna con il pesante giubbotto rosso crociato si è affacciata per caso e ci ha urlato qualcosa.

Nuovi esplosioni ci hanno fatto scappare dall’abitacolo a testa bassa e attraversando la strada abbiamo notato che sotto la coperta c’era un corpo. Il rosso della giacca ha subito reso chiaro di chi si trattasse. Dentro l’edificio i volontari si affrettavano da una parte all’altra per curare i feriti, quasi tutti presi alla testa da frammenti vari. Alcuni mentre fasciavano gli altri e tamponavano il sangue piangevano.

Un ragazzo in un angolo sembrava paralizzato e a più riprese, per tutto il tempo che siamo rimasti lì, scoppiava in singulti violenti. In tutto ciò il corpo di Inna è rimasto fuori sotto la pioggia che nel frattempo aveva iniziato a scendere fitta; per quanto sembri scontato, i morti sono morti.

EFFETTIVAMENTE si è trattato di bombe a grappolo e, specifico senza che lo scriva nessun ufficio stampa governativo, lanciate su una folla di affamati in fila di fronte alla Croce rossa. Se ci fosse un possibile obiettivo militare o strategico nelle vicinanze non importa ma, per dovere di cronaca, nel pomeriggio siamo tornati a controllare. Niente, a meno che non fosse sottoterra.

Poco dopo qualcuno ha urlato «dov’è la stampa?». Yuri è tornato e ci ha detto «andiamo». Siamo partiti per recuperare due anziani in un quartiere periferico della città e portarli alla stazione ferroviaria per farli salire su un treno che portava civili in fuga verso ovest. Ivan e Tamara si chiamano i due anziani, lei cammina sulle stampelle ma è abbastanza autonoma, lui è completamente invalido e ha il catetere.

I volontari l’hanno dovuto sollevare di peso e trasportarlo con una barella di tela. Durante tutta l’operazione sono stati attenti e premurosi, hanno anche sorriso per evitare di spaventare ulteriormente quei due anziani già atterriti dal trambusto. Dopo averli caricati sul treno Yuri mi ha abbracciato e mi ha augurato «buon compleanno». La chiamano «seconda nascita» quando scampi alla morte così, per caso.

MA IERI era davvero il mio compleanno.

È la guerra, non una passerella per politici insensibili. Accade a Kherson, a Bakhmut, dall’altro lato del fronte anche a Donetsk e mentre in Occidente si parla solo di forniture di armi e giustificazioni pretestuose per l’invasione, a Kherson e altrove nel mondo si muore così, senza motivo.