Con una stretta di mano e un colloquio privato di oltre un’ora, il presidente golpista egiziano Abdel Fattah al-Sisi e la prima ministra Giorgia Meloni battono due record: lui è il primo capo di stato estero a incontrare a casa propria la neo premier; e lei, a sette anni e mezzo dall’omicidio di Giulio Regeni, è la prima, nel ruolo di presidente del consiglio, a mettere i piedi in territorio egiziano.

La girandola di ministri al Cairo c’era già stata (da Di Maio a Salvini), ma Meloni è la prima presidente del consiglio in visita in Egitto dal 3 febbraio 2016, quando il corpo straziato del ricercatore italiano fu ritrovato abbandonato lungo l’autostrada Il Cairo-Alessandria.

QUESTIONE SIMBOLICA, più che di contenuto: Roma non ha mai interrotto i rapporti commerciali (3,7 miliardi di interscambio nel 2020, 2,1 tra gennaio e giugno 2021, 1,8 tra gennaio e giugno 2022) e militari con l’Egitto, eppure quella stretta di mano stona.

A darla è una politica che da leader di Fratelli d’Italia si era espressa in merito. Il 26 gennaio 2019, ad esempio, su Twitter: «Dopo tre anni il popolo italiano reclama il diritto di sapere la verità e conoscere chi è responsabile del sequestro, della tortura e dell’omicidio di un nostro connazionale. Basta omertà: l’Italia pretende risposte immediate».

Secondo una nota di Palazzo Chigi, ieri nel vis-à-vis con al-Sisi, Meloni ha sottolineato «la forte attenzione dell’Italia sui casi di Giulio Regeni e Patrick Zaki». Nessun altro dettaglio, la formula è quella standard che abbiamo imparato a conoscere. E che stona, anche questa, con i contenuti veri dell’incontro: «Approvvigionamento energetico, fonti rinnovabili, crisi climatica e immigrazione».

Insomma, cambia poco: l’Italia non intende rompere con l’Egitto, anzi, gli affari vanno a gonfie vele. Dai mega giacimenti sottomarini di gas, Noor e Zohr, gestiti dall’Eni alla vendita di fregate, aerei da guerra e armi leggere per gli arsenali della polizia. Al-Sisi lo sa e non concede nulla, il caso Regeni a suo parere è chiuso da anni.

Così si è spinto oltre, dicendosi speranzoso che la visita di Meloni sia da impulso a un incremento della relazioni. Basate di fatto su due elementi: lotta all’immigrazione e al terrorismo e ricchezza energetica egiziana. Meloni e al-Sisi, dice il portavoce del presidente, Bassam Radi, «hanno anche discusso della cooperazione congiunta nel dossier della sicurezza energetica, (…) con la possibilità di prevedere la messa in atto di un collegamento elettrico con l’Italia».

SU QUESTO SI FONDA la fallace narrazione occidentale del regime egiziano come fonte di stabilità in una regione in preda al caos. Paradossale che si consideri fonte di stabilità chi ha portato il 60% della propria popolazione sotto o poco sopra la soglia di povertà e ha istituzionalizzato la repressione di qualsiasi voce critica. Ne dà prova, in diretta globale, in questi giorni: se il centinaio di arresti preventivi al Cairo è invisibile, a vedersi bene è la censura di internet alla Cop27.

Irraggiungibili i siti di associazioni come Human Rights Watch e Amnesty (pur presenti alla conferenza, ma visto mai che a qualcuno venga in mente di dare una scorsa ai rapporti sull’Egitto) e quelli di agenzie indipendenti (Mada Masr) o «nemiche» come Al Jazeera. Secondo Citizen Lab, a fornire la tecnologia necessaria ai blocchi «mirati» è stata la compagnia canadese Sandvine. In totale, denuncia Hrw, è «bloccato l’accesso a circa 700 siti web (…) e a informazioni su cui dovremmo discutere, tra cui temi ambientali e di diritti umani».

Pratiche che rientrano nelle linee-guida presenti fino a poco fa, secondo Middle East Monitor, nel sito della presidenza egiziana: vietati fumetti o teste cartonate di capi di stato e di governo e prese in giro dell’Onu o di stati membri; vietate critiche contrarie alla decenza; obbligo di notificare 48 ore prima l’eventuale protesta che sarà comunque sottoposta al via libera dei servizi di sicurezza e si svolgerà in aree dedicate. Ecco spiegate le scarne proteste di ieri, tra attivisti vestiti da mucca e poco più.

È SUCCESSO DI PIÙ altrove. Ieri tre giornalisti egiziani hanno iniziato uno sciopero della fame in solidarietà con Alaa Abdel Fattah, il prigioniero politico più noto d’Egitto, che dopo 215 giorni a digiuno ha deciso di rinunciare anche all’acqua. Eman Ouf, Mona Selim (sorella di Alaa) e Racha Azab hanno avviato la protesta in contemporanea a un sit-in al sindacato dei giornalisti egiziani che chiede «l’immediato rilascio di Abdel Fattah e di tutti i prigionieri politici».

L’altra sorella di Alaa, Sana’a, è arrivata ieri a Sharm per accendere una luce sul fratello. E per accenderla in faccia a Rishi Sunak, premier della Gran Bretagna di cui Alaa è cittadino dallo scorso anno.

In serata, a Sharm el-Sheikh, Sunak – che domenica scorsa in una lettera a Seif aveva sottolineato l’impegno di Londra per il rilascio del fratello Alaa e poi ieri aveva annunciato un incontro bilaterale con al-Sisi – ha ribadito direttamente al presidente egiziano «la profonda preoccupazione del governo britannico» e la speranza di «risolvere la questione prima possibile».