Natalya sistema le sue cose in una stanza di albergo: il letto disfatto, un piatto vuoto sulla scrivania, un paio di mele gialle che ha portato in camera dal ristorante del grande albergo di Capannelle, nell’estrema periferia di Roma, che ospita più di duecento rifugiati ucraini. La figlia Maria prende in braccio la gatta Malynka, la solleva in aria, la gatta non miagola, non si dimena, asseconda i gesti della dodicenne senza protestare. “L’abbiamo portata con noi in braccio per tutto il viaggio”, racconta Natalya Malatsai, 45 anni, originaria di Marganets, una città vicino a Nikopol e a Zaporižžja, nell’Ucraina sudorientale.

I missili, i rifugi, le bombe. I suoi ricordi si confondono, Natalya sa solo che poche ore dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina ha deciso di partire con le due figlie di ventuno e dodici anni e con la gatta Malinka. Il marito è rimasto a casa, le sorelle e i loro figli sono rimasti a casa. Loro invece hanno preso il treno per Zaporižžja, poi per Lviv, infine hanno lasciato il paese dalla frontiera polacca. Ricorda i treni pieni di persone, le file per salire sui vagoni, tutti gli sfollati di Mariupol sul primo treno per Zaporižžja.

A sinistra: Olena Khalina, 40 anni, nell’appartamento che le è stato assegnato dall’associazione Aida Roma, dove vive insieme ai figli Veroni​ka (17 anni) e Ruslan (8 anni) ​e alla gatta Anfisa. Vengono da Bologorodka, sono fuggiti da Kiev a marzo del 2022. A destra: Slaviana Plakhotina, 11 anni, studia per l’esame di vi​olino che sosterrà online​ con la sua scuola di musica d​i Odessa. Slaviana alloggia in​sieme alla sua famiglia in una​ casa gestita da una parrocchia di Sacrofano, a venticinque chilometri da Roma. (Tommaso Ausili, Contrasto)

Il 24 febbraio per Natalya significa questo: la decisione di partire, presa nel giro di due ore. Avrebbe voluto rimanere in Polonia, dice ora. Ma lì non c’era più posto, allora le hanno caricate sul pullman e le hanno portate in Italia, a Pontecorvo, in provincia di Frosinone. Non conosceva nessuno, ma uomo anziano, un italiano, le ha messo a disposizione un monolocale, la Caritas le portava la spesa e ha potuto beneficiare del contribuito del governo italiano per i primi tre mesi: 300 euro al mese per lei e 150 euro per ciascuna delle due figlie. Quella di dodici anni si è iscritta a scuola: “È bella la scuola italiana e poi facevano un sacco di attività, suonava la chitarra”.

Ma Natalya nel frattempo non è riuscita a trovare un lavoro: “Il paese era troppo piccolo”. E lei non parla italiano. La figlia più grande, che in Ucraina studiava giurisprudenza, ha lavorato online per un call center ucraino e così ha contribuito a bilancio familiare. Ma poi, all’inizio di febbraio, a quasi un anno dall’inizio della guerra, l’uomo che la ospitava le ha chiesto di pagare l’affitto. “O paghi, o te ne vai”, le ha detto.

Lei ha capito che non ce l’avrebbe fatta a pagarlo, così ha lasciato il paese, niente più scuola per Maria. Hanno ripreso in braccio la gatta Malinka e sono andate a Roma: una donna, due ragazze e la loro gatta. Hanno ricominciato da capo, un anno dopo la fuga dall’Ucraina. Hanno preso un treno e hanno chiesto aiuto all’hotel Capannelle, che è un hub di prima accoglienza, allestito dalla Protezione civile per ospitare gli ucraini nell’emergenza e che in realtà dovrebbe essere già chiuso. Ma che invece continua a funzionare, perché gli arrivi non sono del tutto finiti e perché molte persone come Natalya e le sue figlie non sono ancora sistemate.

Quello che la preoccupa, ora che si è trasferita nell’hotel, non è tanto il suo futuro o quello delle figlie, o il fatto di non trovare un lavoro o un alloggio. Quello che davvero la tormenta è la situazione di chi è rimasto a casa: la sua testa è ancora in Ucraina.

L’unico momento in cui scoppia a piangere è quando racconta che le sue sorelle non hanno nessuna intenzione di raggiungerla, perché non vogliono lasciare i mariti e le loro case. E allora Natalya sta pensando di tornare in Ucraina per prendere e portare con sé in Italia anche i nipoti, i figli delle sorelle. Questo la farebbe sentire utile, allevierebbe il senso di colpa che prova per essere andata via, nonostante la sua città sia ancora sulla linea del fronte.

Sono cinquemila i minori ucraini senza genitori arrivati nell’ultimo anno

Nella grande hall dell’albergo romano, in un salottino appartato Natalya incontra le operatrici del progetto “Persone in fuga”, gestito da Oxfam e dalla Casa dei diritti sociali e chiede come fare a tornare in Ucraina per qualche giorno, senza perdere il diritto all’accoglienza in Italia e poi come gestire gli aspetti burocratici per viaggiare con i nipoti. “È uno dei problemi che ci sottopongono più spesso”, spiega Chiara Romagno, coordinatrice del progetto nel Lazio.

“Arrivano quasi tutte con dei minori che non sono figli loro, ma figli di sorelle o parenti. Hanno dei documenti che si chiamano affidavit, scritti dal notaio e che certificano l’esistenza di un legame di parentela con il minore. Anche se l’Italia non riconosce questi documenti dal punto di vista giuridico, sono tuttavia importanti per non separare i bambini dai parenti quando si individuano delle soluzioni in accoglienza”, spiega Romagno, che insieme a una mediatrice culturale e ad altre due operatrici fornisce un servizio di consulenza legale e sociosanitaria ai profughi. Secondo i dati raccolti dalla Protezione civile sono cinquemila i minori ucraini senza genitori arrivati nell’ultimo anno. Davanti al tavolo delle coordinatrici si forma una piccola fila di persone che vorrebbero essere ascoltate.

Donne e bambini

“In questa fase, a un anno dall’inizio della guerra, siamo di fronte al difficile passaggio dalla prima alla seconda accoglienza. Molte persone stanno cercando delle situazioni più stabili, altre devono lasciare gli alberghi che erano stati pensati come soluzione di emergenza. Ma il percorso non è semplice. Tanti sono preoccupati per il rinnovo dei documenti, che scadono all’inizio di marzo, altri vogliono tornare a casa, altri ancora vogliono andare altrove in Europa”, spiega Romagno, che racconta le difficoltà di incontrare gli ucraini rispetto ad altri richiedenti asilo.

“Ci siamo resi conto che la maggior parte dei profughi era ospitata in famiglie di amici e parenti oppure in soluzioni autonome, e per questo in tanti non erano seguiti dal punto di vista legale e sociale. Di conseguenza abbiamo pensato di allestire delle unità mobili nel Lazio, in Toscana e in Veneto che ogni giorno si spostano e vanno nei luoghi di aggregazione. Abbiamo capito che il semplice sportello non funzionava. Dovevamo andare noi da loro”, continua Romagno.

“È una popolazione soprattutto femminile, donne con bambini. Hanno problemi di salute, ma ci sono anche questioni più quotidiane, alcune non sanno a chi lasciare i figli se trovano da lavorare o se devono curarsi, altre non sanno come spostarsi perché non hanno mezzi propri e sono sistemate in strutture poco collegate”, spiega.

Secondo i dati del ministero dell’interno, in Italia dal 24 febbraio 2022 sono arrivati 173mila profughi ucraini; di questi circa 169mila hanno fatto richiesta di protezione temporanea in base alla direttiva 55/2001, che è stata approvata dai 27 paesi europei per l’accoglienza degli ucraini subito dopo l’invasione russa per far fronte a quella che è stata definita “la più grossa crisi dei rifugiati in Europa dopo la seconda guerra mondiale”.

Questo tipo di protezione permette ai profughi di spostarsi liberamente all’interno dell’Unione europea e di lavorare. Ma gli arrivi non si sono fermati, anche se sono diminuiti in maniera considerevole rispetto all’inizio del conflitto: secondo la Protezione civile ogni mese continuano ad arrivare in Italia circa duemila ucraini.

Nuovi arrivati

Oleg, 18 anni, per esempio, è arrivato in Italia alla fine di dicembre da Ternopil, una città dell’Ucraina centrale; prima è stato accolto da alcuni conoscenti in famiglia, poi è arrivato nell’albergo romano.

È andato via dall’Ucraina per non andare al fronte, era minorenne quando è approdato in Italia. Ora ha trovato un tirocinio in un albergo come facchino e cameriere, ma teme che la Protezione civile possa spostarlo dall’albergo di Roma verso la Campania, come gli è stato già annunciato, e in quel caso perderebbe la possibilità di lavorare.

A sinistra: Roma, ottobre 2022. ​Daria Demydenko, 29 anni, con il figlio Svatos​lav nell’appartamento che le è stato assegnato dall’associazione Aida Roma, dove vive insieme alla madr​e. Da​ria viveva a Dnipro. Il marito è al fronte. A destra: Sacrofano, ottobre 20​22. La famiglia Plakhotina, originaria di Mariupol, nella casa messa a ​disposizione da una parrocchia. Vivevano a Odessa dal 2019. (Tommaso Ausili, Contrasto)

Tamara e Marina sono due sorelle di origine georgiana, ma vivevano entrambe a Kiev da molti anni. Marina, 60 anni, ha la cittadinanza ucraina e non ha avuto problemi a ottenere la protezione temporanea in Italia, Tamara invece aveva solo un permesso da lungo soggiornante dopo aver trascorso 18 anni in Ucraina. Per questo non le è stata ancora riconosciuta la protezione temporanea e probabilmente dovrà chiedere l’asilo come tutti i richiedenti asilo di altre nazionalità. Adesso le due sorelle temono di essere separate, e infatti anche a Marina hanno proposto di essere spostata in Campania. “Mia sorella senza di me sarebbe persa, non saprebbe muoversi”, dice Marina, che prima dell’inizio della guerra lavorava come operatrice negli istituiti penitenziari a Kiev e ricorda di essersi ritrovata nei sotterranei della metropolitana della città il 24 febbraio, senza avere capito esattamente cosa fosse successo.

“Spesso la comunicazione del trasferimento in strutture di seconda accoglienza viene data con un preavviso di 24 ore”, afferma Laura Bisegni, coordinatrice dello sportello legale della Casa dei diritti sociali di Roma e operatrice del progetto “Frida” per l’inclusione sociale e linguistica di donne e bambini ucraini a Roma. Il progetto è in collaborazione con l’Anci, il Forum del terzo settore e Maspro consulting ed è finanziato dal Fondo sociale europeo, i cui criteri sono stati rivisti proprio per sostenere i rifugiati ucraini.

Nei primi giorni della crisi le famiglie italiane si sono offerte di ospitare i profughi e si è parlato di ventimila posti messi a disposizione

“Spesso le persone che si sono rivolte a noi avevano grossi problemi di salute”, conferma Bisegni. Anche secondo lei la questione più complicata è stata quella d’intercettare le persone e i loro bisogni, dato che nella maggior parte dei casi si trovavano in abitazioni private e non si sono rivolte agli sportelli legali.

“Dal punto di vista legale per gli ucraini tutto è stato più semplice, c’è un vero e proprio doppio binario: per esempio, all’ufficio stranieri della questura di Roma c’è uno sportello dedicato a cui possono rivolgersi e non devono fare file sfiancanti come tutti gli altri richiedenti asilo”, afferma Bisegni. “Poi aspettano al massimo tre mesi per ottenere la protezione temporanea, mentre per gli altri richiedenti asilo le procedure sono molto più lunghe”, conclude l’operatrice, secondo cui le criticità per l’accoglienza degli ucraini non hanno riguardato tanto gli aspetti legali quanto quelli materiali, soprattutto nel passaggio che sta avvenendo in questi mesi dall’emergenza al radicamento in strutture più stabili.

“Spesso i profughi sono spostati anche fuori della regione e questo comporta uno sradicamento, perché molti avevano iscritto i figli a scuola o avevano cominciato a inserirsi”, conclude Bisagni, che conferma che il progetto Frida ha fornito una consulenza a circa cento persone a partire da luglio. Ma per Amalia Romano, coordinatrice del progetto, è mancata una regia di coordinamento dei diversi progetti attivati soprattutto al livello regionale: “Questo rischia di vanificare gli sforzi delle singole associazioni”.

Per Augusto Venanzetti, responsabile della scuola d’italiano per stranieri della Casa dei diritti sociali di Roma, il problema principale nella scuola è stata la precarietà degli ucraini: “La maggior parte delle persone che si sono rivolte alla scuola era ospitata dalle famiglie, ma non aveva una prospettiva d’integrazione. Molti – donne nella maggior parte dei casi – non sapevano quando sarebbero tornati a casa, ma avevano la prospettiva di andarsene il prima possibile, quindi non hanno investito nei corsi di italiano, come avviene di solito per altri gruppi di migranti e rifugiati”, spiega Venanzetti. “La frequenza della scuola è stata discontinua e marginale rispetto alle altre nazionalità: per avere un’idea, tra i 1.300 studenti che abbiamo ogni anno nei nostri corsi, abbiamo avuto meno di venti donne ucraine. Ci dicevano: ‘Io tra un mese torno a casa’. Anche se poi questo purtroppo non è successo”.

Uscire dall’emergenza

“L’accoglienza di queste persone è coperta dal punto di vista giuridico dalla direttiva europea e ha permesso dei percorsi di accoglienza rapidi e anche innovativi”, spiega Fabrizio Curcio, capo del dipartimento della Protezione civile, che è stata l’agenzia governativa incaricata di coordinare l’emergenza nel primo anno della guerra. “Per gli ucraini ci sono state misure di accoglienza diversificate”, spiega Curcio, che ricorda la difficoltà di gestire questa emergenza all’interno di un’altra emergenza, la pandemia di covid-19.

“Avevamo avuto mandato di dare una risposta rapida e sicura e così per la prima volta abbiamo sperimentato la misura dell’autosostegno, cioè del contributo economico a chi trovava una sistemazione autonoma. Poi sono stati aperti dei bandi per l’accoglienza diffusa in famiglia, con 14 enti che avevano già sperimentato soluzioni di questo tipo in passato, infine sono stati aumentati i posti disponibili nel sistema dei centri di accoglienza”, continua Curcio. Nell’accoglienza diffusa sono state sistemate circa seimila persone, 130mila persone hanno ricevuto la misura economica di autosostegno, e gli altri sono andati nei centri di accoglienza.

“In tutto abbiamo assistito 150mila persone con delle misure diversificate, è stato particolarmente complicato costruire una banca dati per la gestione delle misure di autosostegno, che non erano mai state sperimentate prima”, osserva Curcio. Gli alberghi, invece, che sono stati aperti per fornire una prima accoglienza sono stati chiusi in quasi tutte le regioni, tranne nel Lazio e in Abruzzo, dove si è fatto più fatica a trovare dei posti nell’accoglienza ordinaria. Al momento ancora 6.089 persone sono negli alberghi in queste due regioni.

“Le persone fanno fatica a spostarsi dagli alberghi in questo momento, perché nel corso dei mesi si sono radicate. Ma gli alberghi non possono essere considerati una soluzione di lungo termine, sono una risposta di emergenza nell’emergenza”, spiega Curcio. A un anno dall’inizio della guerra, il problema è proprio il passaggio a forme di accoglienza più strutturate.

L’Europa ha prorogato la validità della direttiva per un altro anno, l’Italia sta lavorando a un decreto per la sua attuazione che tuttavia non è ancora stato pubblicato, la Protezione civile dovrebbe essere ancora coinvolta nella gestione dell’accoglienza (articolo aggiornato al 22 febbraio, ndr). “Al più presto ci sarà una decisione in questo senso, sicuramente ci sarà necessità di un finanziamento per l’accoglienza diffusa e per l’accoglienza nei centri, mentre non servirà finanziare le misure di autosostegno, perché non sono stati spesi tutti i fondi dell’anno passato”, assicura Curcio. “È possibile che alcuni che hanno beneficiato dell’autosostegno dopo i primi tre mesi si rivolgano successivamente all’assistenza tradizionale, questo era previsto. Non ci risultano grandi numeri in ogni caso”.

Nei primi giorni della crisi le famiglie italiane si sono offerte di ospitare i profughi ucraini e si è parlato di ventimila posti messi a disposizione. Tuttavia, spiega Curcio, è stato molto complicato garantire un certo standard nelle famiglie che hanno offerto ospitalità e sono state favorite quelle che avevano aderito alle 14 reti del terzo settore, già nel circuito dell’accoglienza da prima della guerra. “C’è un tema di requisiti, l’accoglienza deve avere degli standard, bisogna fissare delle regole. Sarebbe stato difficile certificare tutte quelle famiglie e finora non è stato implementato nessun sistema di questo tipo”, conclude il capo della protezione civile, che chiarisce che per il momento non è previsto nessun sostegno economico a chi accoglie e sottolinea in ogni caso l’enorme solidarietà verso gli ucraini da parte della popolazione italiana nel primo anno della guerra.

Un’occasione persa

“C’è un murales che mostra una donna ucraina che tiene per mano una donna mediorientale, che a sua volta solleva una donna africana. Quello che speravamo all’inizio della guerra è che l’atteggiamento iniziale che abbiamo avuto verso i profughi e le profughe ucraine si sarebbe poi trasferito a tutte le altre e agli altri profughi, a chi scappa da altri conflitti. L’idea di una protezione temporanea per chi scappa da conflitti avrebbe dovuto essere estesa tutti i profughi. Ma questo non è stato”, osserva Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, che non ha aumentato la disponibilità dei posti in accoglienza nel corso dell’ultimo anno.

“Nei nostri centri c’è un 20 per cento di profughi ucraini, in linea con la media nazionale. Nei centri di accoglienza sono finiti quelli che non avevano una rete familiare oppure che avevano dei grossi problemi di salute. La maggior parte dei profughi ha trovato una sistemazione temporanea da parenti e amici e ora vedremo a fine marzo quanti rinnoveranno la protezione temporanea e quanti invece se ne andranno”, afferma Ripamonti, che ha rilevato una difficoltà di integrazione degli ucraini dovuta proprio all’idea che la guerra sarebbe finita in breve tempo e dalla prospettiva di tornare a casa appena possibile.

“Abbiamo avuto diverse persone che sono volute tornare a casa quando il conflitto si è circoscritto ad alcune aree, anche delle persone anziane”, continua Ripamonti, secondo il quale verso gli ucraini c’è stato un “ascolto disarmato” da parte delle istituzioni, che di solito è assente nei confronti di altri profughi e che invece dovrebbe essere adottato sempre nella migrazione. “Le vittime sono sempre vittime, pensiamo ai profughi siriani che abbiamo confinato in Turchia e ora sono vittime anche del terremoto. Il rischio è che si aprano percorsi paralleli e discriminatori, che ci siano profughi di serie A e profughi di serie B”.

A sinistra: Alexandra Klimova insieme alle figlie Adelina e Sara nella hall dell’​albergo di Fiuggi dove sono state ospitate. A destra: Mark nell​’alloggio che gli è stato messo a disposizione​ dalla Caritas a Fiuggi. Ha 21 anni e vi​ene da Odessa. (Tommaso Ausili, Contrasto)

Dello stesso parere il presidente dell’Ics – Centro italiano di solidarietà di Trieste, Gianfranco Schiavone: “La protezione temporanea per gli ucraini ha delle caratteristiche omogenee in tutta Europa e ha funzionato, il rilascio di questi permessi è andato bene, è stata data una priorità a queste persone, ma purtroppo si sono allungati i tempi per quelli che non erano ucraini. L’Italia non ha preso più personale per gestire la situazione degli ucraini, ha semplicemente ritardato le pratiche degli altri. La protezione temporanea è stata molto efficace, inoltre la libertà di movimento e l’accesso nel mercato del lavoro ha permesso loro infine anche di tornare a casa per periodi più o meno lunghi”.

Ma le misure di accoglienza, secondo Schiavone, sono il punto debole, perché sono state insufficienti. La direttiva europea dice infatti che le persone dovrebbero essere collocate in maniera adeguata: “Ma questo diritto all’alloggio non è stato pienamente garantito. Quasi tutti gli ucraini hanno scelto la misura di autosostegno, che però non è stata continuativa, ed è prevista per soli tre mesi. Quindi la maggior parte loro non ha avuto accesso a una vera e propria accoglienza e l’Italia ha un po’ approfittato della disponibilità della diaspora, ha scaricato su questa comunità tutta la responsabilità, ha previsto una specie di bonus, che non è in linea con la direttiva”, conclude l’esperto, secondo cui in realtà il paese ha perso un’occasione per sperimentare delle forme nuove e decentrate di accoglienza.

La maggior parte degli ucraini tuttavia sembra soddisfatto dell’accoglienza ricevuta. Olena Yakovleva, 40 anni, e Andrii Simanovych, 43 anni, hanno trovato una casa proprio a Trieste, nel circuito dei centri di accoglienza dell’Ics. Prima è arrivata la donna con le sue due figlie di dieci e sette anni, poi il marito l’ha raggiunta lo scorso settembre. Yakovleva è originaria del Donbass, ma viveva con la famiglia a Kiev. Il primo giorno della guerra si sono spostati a vivere nei sotterranei della loro casa, poi a maggio Yakovleva è venuta in Italia con le due bambine. “Avevo paura, mio marito era su internet tutto il giorno per capire quello che stava succedendo”, racconta.

Yakovleva vive in Italia da dieci mesi, nessuno in famiglia lavora, ma tutti stanno frequentando dei corsi di italiano, sono iscritti al centro per l’impiego e a marzo cominceranno dei corsi di formazione. “Le bambine sono al sicuro e possono studiare, questa è la cosa più importante”, dice la donna. Il marito inoltre non può tornare a casa perché non vuole arruolarsi e se rientrasse non potrebbe più rivedere le figlie. “Abbiamo scelto l’Italia perché era uno dei paesi europei in cui c’erano meno profughi ucraini, ne siamo contenti, abbiamo avuto solo piccoli problemi. Le cose si fanno lentamente qui, ma per ora tutto sta funzionando”. ◆

Questo articolo fa parte di A Brave New Europe – Next Generation, un progetto di Slow News, Percorsi di Secondo Welfare, Internazionale, Zai.net e La Revue Dessinée Italia finanziato dall’Unione europea.

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