«Oggi deve essere l’ultimo giorno dei disordini. Non venite in piazza. Nessuno vi lascerà ribellare in questa terra! Non lasciatevi ingannare dai nemici. Le proteste sono frutto dei complotti di Usa, Gran Bretagna, regime sionista e regime marcio dell’Arabia saudita».

È con queste parole che il comandante dei pasdaran Hossein Salami ha minacciato i manifestanti. Le sue invettive non sono però servite. Ieri, nel primo giorno lavorativo della settimana in Iran, gli studenti hanno protestato nei campus di Teheran, Kerman (sud-est) e Kermanshah (nord-ovest). In quest’ultima località le forze di sicurezza hanno sparato contro gli universitari, due sarebbero in condizioni critiche.

«VERGOGNA! VERGOGNA!», hanno urlato gli studenti che si sono scontrati con il personale di sicurezza di un ateneo ad Ahvaz (sud-ovest).

«Morte al dittatore!» è uno degli slogan scanditi nel quarantesimo giorno di lutto per la morte di Mohsen Mohammadi, il ventottenne di Divandarreh, nella provincia iraniana del Kurdistan, colpito da un proiettile e morto il 19 settembre nell’ospedale Kowsar nel capoluogo Sanandaj.

Venerdì sera, le forze dell’ordine iraniane hanno sparato contro la folla davanti a questo stesso ospedale, con il pretesto di voler «proteggere» un altro dimostrante ferito.

Secondo il gruppo di difesa dei diritti umani Hengaw con sede in Norvegia, le forze dell’ordine avrebbero sparato anche contro il dormitorio degli studenti di Medicina, non lontano dall’ospedale Kowsar.

IN QUESTE SETTIMANE alla repressione e alle minacce verbali si aggiungono i ricatti economici: il regime ha preso di mira i beni di famiglia di chi ha preso posizione a favore dei dimostranti.

È successo a Elnaz Rekabi, la campionessa di arrampicata che a Seul ha gareggiato senza velo in segno di solidarietà: la casa della sua famiglia, assai benestante, è a rischio esproprio e così è obbligata a tacere.

Non è una novità del governo dell’ultraconservatore Raisi: le stesse misure intimidatorie erano state prese negli scorsi anni nei confronti del filosofo Ramin Jahanbegloo, rilasciato su cauzione, e di tanti altri intellettuali che avevano criticato il sistema politico iraniano e avanzato l’ipotesi di una qualche riforma.

In merito alle interferenze straniere, ieri il capo dei pasdaran si è rivolto così al presidente statunitense: «Signor Biden, ti abbiamo cacciato via dall’Iran e mandato via dalla regione e seppelliremo il tuo sogno sulle proteste in questa terra».

PAROLE NON CASUALI: gli iraniani hanno a mente di come i servizi segreti statunitensi e britannici unirono le forze nel 1953 per rovesciare il premier Mossadeq che aveva nazionalizzato il petrolio iraniano, togliendo agli inglesi una fonte importante di reddito.

Grazie a quel colpo di stato, lo scià tornò a Teheran e il percorso democratico dell’Iran si fermò. Ieri il capo dei pasdaran si è rivolto anche ai Saud: «Verremo da voi per aver provocato il nostro popolo e seminato discordia. Immaginate solo cosa potrebbe succedervi. Fareste meglio a non sentirvi calmi, poiché vi toglieremo la calma».

SE A LANCIARE minacce e invettive è il capo dei pasdaran, e non il leader supremo, è perché ormai l’Iran non è più in mano agli ayatollah ma delle Guardie rivoluzionarie.

In assenza di un passaggio generazionale tra ayatollah, a comandare è quella generazione che si è formata negli anni Ottanta, durante la guerra scatenata dal dittatore iracheno Saddam Hussein il 22 settembre 1980. Per gli iraniani quella fu la «guerra imposta» e i loro morti oltre un milione.

Di fronte alla minaccia esterna, Khomeini riuscì a coagulare il consenso attorno a sé e colse l’occasione per reprimere ogni forma di dissenso all’interno nel Paese.

DI FATTO, IN QUESTI 43 anni di Repubblica islamica il clero sciita non è riuscito a formare una nuova generazione di teologi a cui passare il testimone. Non è riuscito, o forse non ha voluto per non essere – un giorno – scalzato: la Storia insegna che in Iran i padri che comandano hanno paura dei figli.

Nell’epica persiana non esiste un Edipo che uccide il padre, ma è Rostam a uccidere il proprio figlio Sohrab, che non ha mai conosciuto. A raccontarne le tragiche vicende è il poeta persiano Ferdusì nel suo Shahnameh.

Sull’altopiano iranico funziona così, da millenni: la generazione più grande non vuole cedere il testimone e per mantenere il potere usa violenza, schiacciando quella più giovane. A scombussolare un codice consolidato è il fatto che se Sohrab era il figlio maschio, Mahsa Amini e le altre icone di queste proteste sono donne.

Sono il simbolo di tre generazioni di iraniane che in questi decenni si sono emancipate con gli studi universitari e il lavoro, anche online, e non vogliono più essere vittime.