Renata Pepicelli è docente di islamistica e storia dei paesi islamici all’Università di Pisa. È autrice di Femminismo islamico. Corano, diritti, riforme e Il velo nell’islam.

 

Partiamo dalle origini. Cosa prevede il Corano rispetto all’uso del velo?

Non è semplice, entriamo nell’ambito delle interpretazioni date nel corso dei secoli fino a oggi. C’è chi ritiene che sia Dio attraverso il Corano ad aver previsto che le donne debbano coprirsi il capo e chi parla invece della copertura delle sole parti intime del corpo delle donne. Su queste diverse letture oggi si gioca una partita molto importante nelle comunità musulmane. Molte donne musulmane praticanti sono convinte che il velo non sia un’indicazione coranica. Ci sono versetti che trattano della copertura delle donne usando termini quali jilbab e khimar, ma c’è una disputa dottrinaria su quali parti del corpo debbano coprire, se anche il capo o addirittura anche il volto. I versetti 24.21, 33.59 e 33.53 sono quelli su cui maggiormente si dibatte. Dibattito che si fa più intenso in relazione alle traduzioni del Corano. Ad esempio nella traduzione in italiano di Bausani il 24.21 fa riferimento a “parti belle” e a “copertura dei seni” e alle categorie di uomini di fronte a cui le donne possono non coprirsi: non c’è un riferimento alla testa e ai capelli. Il 33.59 cita il jilbab, mantello: i fautori del velo ritengono che debba coprire la testa, secondo gli altri non è esplicitato. Il 33.53 fa riferimento a una separazione con il velo tra uomini e donne nell’ambito di uno spazio pubblico ma non indica se debba esserci una copertura del capo. Molte femministe come Fatima Mernissi vi leggono un riferimento legato alla sola vita del profeta che non impone una copertura del capo.

In definitiva la risposta alla domanda la danno le musulmane e i musulmani, e ha a che fare con la linea sottilissima tra interpretazioni religiose. Anche la maggior parte di coloro che credono che ci sia un’indicazione chiara nel Corano e negli hadith, detti e fatti attribuiti al profeta, affinché le donne coprano il capo, non reputano che possa essere considerato un obbligo legislativo, ma piuttosto morale da realizzare attraverso una scelta libera e non coatta. Tra le musulmane praticanti ci sono donne che si velano e donne che non si velano. Non esistono letture univoche. La copertura del capo è obbligatoria per legge solo in Iran e in Afghanistan.

 

Nel velo è individuabile un significato identitario, sia individuale che collettivo?

In questi anni stiamo assistendo a un ritorno del velo. Nel corso del Novecento molte donne nelle città del mondo islamico hanno abbandonato i veli per tornare a utilizzarli a partire dalla fine del secolo, spesso per scelta personale, espressione di spiritualità e di sentimento di appartenenza a una comunità. Esistono poi imposizioni dentro le famiglie, nei contesti comunitari e sociali dove non coprirsi è visto in maniera molto negativa. Ma non stiamo parlando di legislazioni degli Stati, tranne che nei casi sopracitati.

Le ragioni per le quali le donne si velano oggi sono plurali. C’è la convinzione che questo atto sia una scelta delle donne che coprendosi si riconoscono in quanto musulmane: il velo è considerato un segno religioso di pietas e sottomissione a dio e solo a dio. C’è poi l’idea secondo la quale la copertura del capo è un’affermazione della propria identità di musulmana praticante che si sottrae a una oggettivizzazione del corpo femminile. Ci sono motivi identitari dovuti al fatto che in molti contesti nel secolo scorso è stato vietato, come nella Turchia di Ataturk dove il velo è stato fortemente stigmatizzato e vietato in uffici, in parlamento e nelle università, per cui indossarlo diventava una pratica identitaria oppositiva legata alla libera scelta delle persone. Abbiamo assistito a manifestazioni di ragazze turche che chiedevano di entrare nei campus velate e che indossavano parrucche per aggirare il divieto. Poi c’è un uso del velo in termini identitari/oppositivi in quei contesti dove il suo uso è vietato o limitato. In Europa è in particolare il caso della Francia. Infine non si può dimenticare che il velo è considerato anche un’espressione dei movimenti dell’Islam politico.

 

Nel secolo scorso, prima della stagione delle indipendenze, il velo è stato anche una reazione ai colonialismi europei?

Il colonialismo europeo ha fatto dei diritti delle donne una sua bandiera, una giustificazione dell’impresa coloniale. Il velo era considerato un esempio di degradazione delle donne e di loro esclusione dalla vita pubblica. In particolar modo la Francia, ma non solo, ha portato avanti una politica profondamente anti-velo: in Algeria lo svelamento si realizzava anche tramite spettacoli durante i quali si toglievano i veli alle donne con la forza. Per la mentalità coloniale lo svelamento delle donne rappresentava in ultima istanza lo svelamento e il possesso totale della colonia. Svelare significava penetrare profondamente la colonia e controllarla attraverso le categorie culturali dei colonizzatori. In tale contesto, diversi segmenti delle società colonizzate consideravano il velo come simbolo estremo di resistenza, di una cultura che non si voleva piegare. Tra le popolazioni colonizzate c’era una doppia tendenza: sia allo svelamento come simbolo di modernizzazione sia al mantenimento del velo come forma di resistenza di una nazione colonizzata. Pensiamo al film La battaglia di Algeri: le donne si velano e si svelano a seconda delle ragioni della guerra di liberazione: lo tolgono per non essere riconoscibili ai controlli dei soldati francesi e lo indossano per nascondervi sotto le armi. Il suo uso +/non uso diventa una dinamica di resistenza alla colonizzazione, come anche spiegato da Frantz Fanon.

 

Può tracciare una storia dei movimenti femministi nel secolo scorso?

Tra le fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si apre un dibattito nelle città arabo-musulmane sul ruolo delle donne dentro la società, che arriva a toccare questioni legate all’ingresso delle donne nello spazio pubblico. Si afferma presto un’ala più laica e progressista che crede che le donne debbano giocare un ruolo importante nella costruzione degli Stati arabi, entrare nello spazio pubblico, essere istruite e alleggerire l’uso del velo, abbandonando prima i veli che coprono il volto e poi quelli che coprono il capo. Coperture di questo tipo erano usate soprattutto dalle donne delle classi medio-alte che potevano permettersi di non lavorare e di non andare al mercato. Nei primi decenni del Novecento saranno le élite medio-alte ad abbandonare sempre di più il velo. Emblematica è la storia di Hoda Sharawi, fondatrice dell’Unione femminista egiziana, che nel 1923 viene in Italia per una conferenza internazionale sul suffragio alle donne e, rientrando in Egitto, insieme a una compagna decide di svelarsi davanti ai fotografi: è l’immagine di un’epoca in cui le donne, con il sostegno di élite definite moderniste, iniziano a svelarsi in un percorso  che attraversa le città del mondo islamico. La Turchia di Ataturk, che riconosce il diritto di voto alle donne già negli anni Trenta, stigmatizza il velo e arriva a definire il suo uso una pratica da barbari. Le donne devono svelarsi per far parte del progetto di nazione moderna che Ataturk vuole realizzare. In Iran lo scià Reza Pahlavi si spinge ancora più avanti: nel 1936 proibisce per legge l’uso del velo, un atto salutato positivamente da una parte della popolazione ma che è considerato una violenza inaccettabile dall’altra. Ci sono donne che non escono più di casa a causa del divieto, e che di conseguenza si vedono spogliate dei propri diritti perché esposte a sguardi che considerano violenti sui propri corpi. Non è un caso che le manifestazioni che condussero alla rivoluzione del 1979 videro tante donne scendere in strada con il velo, che assumeva così un’identità politica forte, di rifiuto di imposizioni dall’alto. Quelle stesse donne non immaginavano però che di lì a poco, dal 1983, quel velo sarebbe stato imposto a tutte le iraniane e alle donne che entrano in Iran. Quelle che vediamo oggi non sono solo manifestazioni contro il velo, ma manifestazioni per la libertà di scelta, perché spetti alle donne decidere. Anche molte donne velate sostengono questa lotta, perché il principio da salvaguardare è quello della libertà di scelta, sul velo come su altre questioni.

 

Nei suoi studi, lei ha trattato di due macro-categorie, femminismi laici e femminismi islamici. Che differenze portano con sé?

Il mondo musulmano è attraversato da movimenti femministi da oltre un secolo, anche se alcuni rifiutano l’espressione “femminismo” considerandola una categoria occidentale e si definiscono e nominano sulla base delle lotte che compiono, dai diritti nella sfera privata e pubblica alla riforma dei codici della famiglia che sanciscono per legge una gerarchia di genere. Abbiamo una corrente di cosiddetto “femminismo laico” che si rifà alle dichiarazioni e convenzioni per i diritti umani ritenendo che l’islam non sia il quadro entro il quale far avanzare l’uguaglianza di genere. Dagli anni Novanta del secolo scorso emerge poi un “femminismo islamico”, che sostiene che le musulmane vivano una condizione di inferiorità a causa di interpretazioni erronee dei testi islamici e di codificazioni del diritto islamico che tradiscono il vero messaggio religioso. Dal punto di vista di queste donne, il Corano ha portato uguaglianza tra i generi e la rivelazione islamica ha dato diritti alle donne prima impensabili nella penisola araba del VII secolo. Con il tempo, dicono, una lettura misogina e patriarcale del testo sacro ha trasformato le donne in cittadine di serie b: tutto questo è profondamente anti-islamico, affermano, ed è stato possibile perché le donne sono state escluse dal lavoro esegetico e di codificazione del diritto. Per il femminismo islamico dunque vanno riletti i testi religiosi e va fatta riemergere l’uguaglianza di genere delle origini. Accanto a queste due correnti, ne esiste una terza: il dibattito sui diritti delle donne e le questioni di genere dentro i movimenti islamici, come Ennahda in Tunisia o i Fratelli musulmani in Egitto. Si tratta di una galassia plurale e ci sono significative differenze. Dentro Ennahda, ad esempio, ci sono donne islamiste non velate, come la sindaca di Tunisi. La pluralità di posizionamenti la si ritrova anche  sotto il grande ombrello del femminismo islamico, che molte chiamano gender jihad: ne fanno parte donne velate e donne non velate. C’è tra loro addirittura chi ritiene l’uso del velo uno strumento femminista perché la copertura del corpo delle donne serve alla de-sessualizzazione e alla de-oggettivazzazione delle donne dentro società che le ipersessualizzano e le vedono solo attraverso il prisma del loro corpo.