Un anno di guerra e nessuna prospettiva di pace all’orizzonte. Nonostante la mozione dell’Assemblea generale dell’Onu di ieri, l’Ucraina resta un campo di battaglia aperto e sanguinante. Lungo gli 800 km del fronte est, nella regione di Zaporizhzhia e nei pressi di Kherson le bombe continuano a cadere e le persone a morire.

RACCONTARLO vuol dire tenere in considerazione che ogni avanzata o ritirata in questo conflitto non è un evento isolato. Lyman e Kherson «russe per sempre» e poi tornate sotto il controllo di Kiev ne sono l’emblema. Da maggio a ottobre due mondi diversi. Prima la rabbia, la sofferenza, la stanchezza di chi scappa con le poche cose che è riuscito a portarsi dietro. Il lutto senza un feretro da piangere o un cimitero dove portare i fiori. Le ore passate a cercare di rintracciare al telefono qualche parente o amico scomparso. Poi l’entusiasmo per il ritorno, le bandiere, i video con la musica piena di speranza e allegria. Ma i problemi restano, la guerra non è finita e senza acqua corrente, gas ed elettricità è tutto difficile, anche continuare a sopravvivere. Come se non bastasse poi il fronte cambia ancora e il nemico si avvicina nuovamente. E se Lyman, com’è possibile, cadesse di nuovo, se una nuova offensiva tornasse a funestare gli stessi territori? Nulla di fatto, ancora altri morti, militari e civili, nuovi rivoli di sangue che si aggiungono al fiume impetuoso che già scorre da un anno verso l’inferno.

A TUTTI COLORO i quali continuano ad affermare con uno stupore non si capisce mai quanto simulato: «Ma com’è possibile tutto ciò, oggi, nel 2022?» viene sempre più da rispondere «ma dove hai vissuto fino al 24 febbraio scorso?». La guerra in Ucraina non è l’unica guerra in corso ed è sicuramente vero che l’attenzione mediatica che ha ricevuto non ha eguali negli anni recenti. Ma i meccanismi dell’informazione non dovrebbero mai traviare il giudizio alla base, che dovrebbe farci rifiutare ogni guerra come emblema più evidente della volontà di sopraffazione dell’uomo sui suoi simili.

Il che non vuol dire che non ci sia un aggressore e un aggredito, ma che in un contesto come quello di una guerra la disumanità tende gradualmente a imporsi, stendendo un velo spesso e oscuro che copre tutto. Assistere per giorni alle riesumazioni dei cadaveri a Izyum, con la puzza che ti riempie il naso e ti spingerebbe a vomitare ogni secondo, per esempio. Come stabilisci se un morto è stato torturato? Analizzando il cadavere su un sacco nero fuori dalla tomba e poi trasportandolo a vista a un laboratorio da campo. È importante, ci dicevamo, capire se i soldati russi hanno torturato queste persone. Ma per raccontarlo devi vederlo e informarti e chiedere in continuazione domande rivoltanti. Quanti sono, che tipo di violenze, chi verificherà la vostra diagnosi?

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IL RISCHIO che tutto ciò si trasformi in un numero o in un elenco degli orrori è sempre presente. È normale che ci si stanchi di saperle alcune cose, soprattutto quando per mesi non si è parlato d’altro.
Sì, ma poi ci sono i civili rifugiati nell’impianto chimico Azot di Severodonetsk, conosciuti e raccontati poco prima che i soldati russi entrassero in città. Centinaia di persone al buio 24 ore su 24 quando le interruzioni di corrente causate dai bombardamenti a tappeto di Surovikin erano ancora lontane. Storie raccolte con il tramite di un’ex professoressa di inglese che si portava dietro i bambini come una specie di pifferaio magico. Anziani arrabbiati per quella condizione poco dignitosa che ti insultano perché non vogliono che nessuno li veda ridotti in quello stato, figurarsi riprenderli. Altri anziani che invece vogliono lanciare messaggi ai figli lontani, all’Europa o al presidente Zelensky. Tu li saluti e parti verso altre città vicine al fronte oppure rientri a casa tua, ogni tanto. E scopri che l’artiglieria russa ha colpito proprio quel luogo e non si sa nemmeno quanti ne sono morti.

Ma non bisogna esagerare, troppa sofferenza non va bene, si rischia di cadere nell’emotività, di essere accusati di voler «spettacolarizzare» la realtà.

È IL CONTESTO più ampio a essere fondamentale. In altri termini, gli interessi in gioco e il ruolo della Nato. Quindi la nave ammiraglia Moskva gli ucraini non sarebbero mai riusciti ad affondarla senza i missili Neptunes di fabbricazione britannica. E forse qualcuno da Londra li ha anche aiutati con le coordinate. Così come l’attacco al ponte di Crimea non può essere solo opera dell’intelligence di Kiev, «è un’operazione troppo complessa». Stesso copione per il bombardamento della base di Engels, 800 chilometri dentro il territorio russo o l’attentato alla figlia di Dugyn, che la stampa americana però ha imputato a una qualche «frangia deviata» dei Servizi ucraini.

D’ALTRO CANTO durante una guerra le storie che si incontrano possono anche essere già notizie. Riportare la testimonianza, come abbiamo fatto, di famiglie ucraine in Donbass che accusano gli ucraini stessi di aver bombardato le loro case spiega in modo evidente e nello spazio limitato di un reportage perché si parla di divisioni generazionali tra chi è nato sotto l’Unione sovietica e chi è figlio di Euromaidan. Però la testimonianza di Anna e dei suoi vicini aiuta a capire in quale contesto si è inserita la dialettica separatista. Così come il fatto che averla potuta raccogliere e pubblicare, continuando in seguito a lavorare, indica che molti reporter sono riusciti (dal lato ucraino) a scrivere articoli contrastanti con la cosiddetta «versione dominante». Laddove dal lato russo non abbiamo mai visto un video in cui un’anziana dicesse che preferiva vivere sotto la giurisdizione di Kiev e che la guerra l’avevano portata i russi.

D’altronde, le differenze culturali in questa guerra hanno giocato un duplice valore. In primis sono servite da scusa per l’invasione. Ora sono diventate il pilastro della propaganda del Cremlino che accusa l’Occidente di voler annientare la Russia in un capovolgimento semantico in cui è solo l’interesse ad avere senso.

E capire che ognuna di queste differenze è la linfa che nutre il demone della guerra vuol dire riconoscere che il lavoro di chi corrisponde dal campo è fondamentale perché altrimenti, come piace dire a tutti i teorici del complotto o ai pigri, la prima vittima della guerra, ovvero la verità, continuerebbe a morire ogni giorno.