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  • Sabato 10 dicembre 2022

La Cina dove sta, sui costi del cambiamento climatico?

Malgrado il suo ruolo attuale nella produzione di emissioni, è tuttora un "paese in via di sviluppo" per le organizzazioni internazionali

di Maxine Joselow, Michael Birnbaum e Lily Kuo - The Washington Post

Una centrale elettrica a carbone a Hanchuan, nella provincia di Hubei in Cina (Getty Images)
Una centrale elettrica a carbone a Hanchuan, nella provincia di Hubei in Cina (Getty Images)
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Nel 1992 le Nazioni Unite classificarono la Cina come paese in via di sviluppo, sulla base delle sue centinaia di milioni di abitanti che vivevano in condizioni di povertà. Da allora molto è cambiato: ora la Cina è la seconda economia mondiale e la maggiore responsabile di emissioni annuali di gas serra che contribuiscono al riscaldamento del pianeta. Il cinese medio oggi è 34 volte più ricco e inquina quasi quattro volte tanto. Ma negli ultimi tre decenni la classificazione è rimasta la stessa, cosa che irrita i diplomatici delle nazioni sviluppate per cui questo avrebbe permesso a Pechino di non fare la propria parte per aiutare i paesi poveri ad affrontare le devastazioni del cambiamento climatico.

Il dibattito su ciò che la Cina deve ai paesi meno responsabili del riscaldamento globale, ma più danneggiati dai suoi effetti, si è assai intensificato dopo la recente conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici avvenuta in Egitto. Al termine del convegno di due settimane, noto come COP27, i negoziatori di quasi 200 nazioni hanno concordato di istituire un fondo per risarcire i paesi vulnerabili dei costi sostenuti per contrastare l’innalzamento dei mari, la violenza delle tempeste e altri effetti del riscaldamento globale. Ma secondo gli analisti è improbabile che la Cina contribuisca al fondo, nonostante il suo apporto alle emissioni di gas serra sia in rapida crescita. «I fatti sono chiari: la Cina è oggi la principale responsabile di emissioni al mondo» ha detto Li Shuo, consigliere politico senior di Greenpeace East Asia. «Quindi è del tutto ragionevole parlare della sua responsabilità sulla scena internazionale».

La questione è politicamente delicata. I politici di Pechino non vogliono sentir dire che la Cina vada considerata una nazione sviluppata e fanno notare la persistenza di aree di estrema povertà in tutto il paese. E insistono inoltre sui doveri degli Stati Uniti, che hanno immesso nell’atmosfera più gas serra di qualsiasi altra nazione nella storia, sebbene oggi la Cina li superi in termini di emissioni annuali di anidride carbonica (gli Stati Uniti hanno emissioni pro capite molto più alte della Cina).
«I paesi sviluppati, Stati Uniti compresi, devono assumersi maggiori responsabilità» dice in una mail Liu Pengyu, portavoce dell’ambasciata cinese a Washington. «Non è una questione morale ma semplice logica. Dalla metà del XVIII secolo al 1950 i paesi sviluppati sono stati responsabili del 95 per cento dell’emissione complessiva di biossido di carbonio».

Liu ha aggiunto che i paesi più industrializzati non hanno ancora mantenuto l’impegno preso nel 2009 di stanziare 100 miliardi di dollari l’anno per aiutare i paesi in via di sviluppo a passare a economie più verdi e ad adattarsi ai crescenti disastri climatici. Nel 2020 i paesi ricchi hanno erogato quasi 20 miliardi di dollari in meno rispetto a quanto promesso. «Sulla questione del finanziamento la Cina si posiziona ancora come paese in via di sviluppo» afferma Byford Tsang, consigliere politico del think tank internazionale sul clima E3G. «Le nazioni più ricche e sviluppate hanno permesso alla Cina di mantenere tale posizione non rispettando l’impegno preso oltre un decennio fa sui finanziamenti».

Tsang dice che non si aspetta però che la Cina cerchi di prelevare denaro dal nuovo fondo istituito per aiutare i paesi vulnerabili a far fronte agli effetti irreversibili del riscaldamento globale, noti come «perdite e danni» nel gergo dei negoziati sul clima delle Nazioni Unite. «Non credo che i politici di Pechino si ritengano in diritto di reclamare il finanziamento di perdite e danni» ha detto, osservando che il fondo è riservato ai paesi più vulnerabili, come le nazioni insulari che affrontano una minaccia esistenziale a causa dell’innalzamento dei mari.

I funzionari cinesi non hanno dichiarato ufficialmente se contribuiranno al fondo. Interrogato sulla questione alla COP27, l’inviato cinese per il clima Xie Zhenhua ha detto: «La Cina sostiene con forza le rivendicazioni dei paesi vulnerabili e in via di sviluppo per risarcire “perdite e danni”. Anche la Cina è un paese in via di sviluppo e i disastri climatici di quest’anno hanno causato enormi perdite anche da noi. Siamo solidali con le sofferenze dei paesi in via di sviluppo e sosteniamo pienamente le loro richieste». Xie ha aggiunto che, sebbene «non sia nostra responsabilità», la Cina ha fornito 2 miliardi di yuan (280 milioni di dollari) per aiutare i paesi in via di sviluppo a ridurre le emissioni e ad adattarsi al riscaldamento globale attraverso il Fondo per la Cooperazione Sud-Sud sui Cambiamenti Climatici.

Secondo gli analisti è improbabile che i funzionari di Pechino inviino aiuti attraverso i canali delle Nazioni Unite o prendano impegni più decisivi, essendo già sotto pressione interna per via del rallentamento economico causato in parte dalla rigorosa strategia «zero COVID» della Cina e da una flessione del mercato immobiliare. In reazione alla carenza energetica dello scorso anno, la Cina ha approvato un massiccio aumento della capacità di produzione di carbone. Per Lauri Myllyvirta, ricercatore presso il Center for Research on Energy and Clean Air di Helsinki, un contributo a questo fondo da parte della Cina potrebbe costituire un precedente rischioso per i politici cinesi, costringendoli ad assumersi maggiori responsabilità all’interno del sistema delle Nazioni Unite: «Equivarrebbe ad accettare una responsabilità da paese sviluppato, e su questo la Cina ha sempre alzato un muro».

Intanto se da una parte i diplomatici americani hanno accettato di istituire il fondo per perdite e danni, sospendendo l’inveterata resistenza degli Stati Uniti sulla questione, dall’altra non c’è alcuna garanzia che il Congresso approvi i finanziamenti. L’anno scorso il presidente Biden ha richiesto finanziamenti internazionali per il clima pari a 2,5 miliardi di dollari, ottenendone però solo 1 miliardo, e allora i Democratici controllavano entrambe le camere. Quest’anno Biden ha chiesto la cifra record di 11,4 miliardi di dollari ma i Repubblicani, che generalmente si oppongono agli aiuti per il clima, avranno la maggioranza alla Camera da gennaio, attenuando ulteriormente le prospettive di finanziamento.

«L’idea che dobbiamo ai paesi in via di sviluppo una sorta di risarcimento è assurda» ha dichiarato Kevin Cramer, senatore repubblicano dal North Dakota, in un’intervista. «Semmai dovremmo essere noi a inviar loro il conto per tutto quello che abbiamo fatto al posto loro negli ultimi decenni». Cramer ha fatto appello all’inviato statunitense per il clima John F. Kerry affinché si assicuri che Pechino contribuisca allo sforzo. «Penso che se John F. Kerry negoziasse queste sciocchezze con un briciolo di patriottismo, insisterebbe per far pagare la Cina» ha detto.

Alla richiesta di un commento, la portavoce di Kerry, Whitney Smith, ha indicato una dichiarazione precedentemente rilasciata in cui si afferma che gli Stati Uniti «continueranno a fare pressioni sui principali emettitori come la Cina per migliorare in modo significativo» le loro ambizioni climatiche, ma non si accenna specificamente all’intenzione di fare pressione sulla Cina affinché paghi per i danni climatici. Durante i negoziati della COP27 l’Unione Europea ha cercato di separare la Cina dalle altre nazioni in via di sviluppo offrendosi di contribuire a un fondo per i paesi più vulnerabili a condizione che i grandi emettitori come la Cina fossero inclusi come potenziali donatori ed esclusi come potenziali destinatari. «Lo chiamiamo 1992 vs. 2022» ha detto un negoziatore europeo, non autorizzato a commentare pubblicamente. Nelle ultime ore dei colloqui i negoziatori hanno raggiunto un compromesso stabilendo di dare la priorità ai paesi più vulnerabili e consentendo alla Cina di contribuire, ma solo se lo vorrà.

Ai precedenti vertici sul clima delle Nazioni Unite la Cina si era alleata con un gruppo di oltre 100 paesi in via di sviluppo per sollecitare nel mondo ricco una maggiore assistenza finanziaria. A guidare l’iniziativa alla COP27 è stato il Pakistan, uno dei partner diplomatici più stretti della Cina, che fa molto affidamento sugli investimenti cinesi per la sua transizione energetica. Quest’estate il Pakistan, storicamente responsabile di meno dell’1 per cento delle emissioni globali di gas serra, è stato devastato da catastrofiche inondazioni che hanno causato quasi 1.500 vittime e danni per oltre 40 miliardi di dollari. Secondo gli scienziati le inondazioni sono state aggravate dal cambiamento climatico.

Le Nazioni Unite definiscono paesi in via di sviluppo quelli con un tenore di vita relativamente basso, una base industriale più piccola e indicatori come l’aspettativa di vita media, l’istruzione e il reddito pro capite inferiori alla media.
Pur negoziando come un unico grande gruppo alle conferenze sul clima delle Nazioni Unite, i paesi in via di sviluppo hanno spesso interessi molto diversi. L’Arabia Saudita, ancora considerata un paese in via di sviluppo nonostante ottenga grande ricchezza dalle riserve di petrolio, ha cercato di evitare negli accordi sul clima delle Nazioni Unite una menzione esplicita dell’eliminazione graduale dei combustibili fossili. Mentre la piccola nazione insulare di Vanuatu, che potrebbe essere inghiottita dall’innalzamento del mare, ha lottato per l’utilizzo di un linguaggio che rendesse conto della necessità di una rapida riduzione delle emissioni. Per alcuni paesi è possibile muoversi autonomamente fintanto che la Cina è disposta a far valere il proprio peso in difesa degli interessi dei più vulnerabili.

«La Cina ha sempre difeso gli interessi dei paesi in via di sviluppo» ha detto Malik Amin Aslam, ministro del cambiamento climatico del Pakistan ancora all’inizio di quest’anno, «cosa che il mondo sviluppato non ha fatto». Dal suo punto di vista è più importante che la Cina incoraggi l’assistenza delle nazioni più ricche piuttosto che contribuire con i propri soldi. «Non vedo la Cina come il grande cattivo della situazione» ha detto.
Altri politici la pensano diversamente. «Cercano sempre di usare un linguaggio che li protegga, che dia loro meno responsabilità, non riconoscono nessun obbligo per i paesi in via di sviluppo» ha detto un ex diplomatico per il clima di una nazione costiera in via di sviluppo, «lo spartiacque tra sviluppato e in via di sviluppo li ha protetti».

In definitiva qualsiasi mossa futura delle Nazioni Unite per riclassificare la Cina come paese sviluppato richiederebbe il consenso unanime di quasi 200 nazioni. L’obiezione da parte di un solo paese sarebbe sufficiente a vanificare il tentativo. «È un fallimento politico in partenza» ha detto Li di Greenpeace: «non saremo mai in grado di ricategorizzare».

© 2022, The Washington Post
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(traduzione di Sara Reggiani)