La temperatura scende sotto lo zero sulle città ucraine, ma la guerra avanza e anzi tracima oltre confine. Il centro di Donetsk è colpito dall’ artiglieria ucraina con morti civili. Kyiv parla di operazioni false flag: l’ennesima falsità architettata dal Cremlino in difficoltà.

Del resto lo schema delle accuse incrociate – difficilmente verificabili – è stato ben collaudato attorno a Zaporzhizhia. Proprio qui possiamo forse attenderci il focus dell’iniziativa militare ucraina, per spezzare l’area di occupazione russa in due tronconi (il sud e l’est), così da poter meglio procedere nella riconquista territoriale. Per ora però si combatte lungo tutto il fronte, con gli ucraini che continuano ad erodere la logistica russa, e i russi impegnati in attacchi che mirano ad impedire agli ucraini la controffensiva concentrando truppe. Mosca ha bisogno di tempo, di una pausa operativa per riorganizzarsi in vista della primavera. Impensabile, a questo punto, che il Cremlino dia ordini di smobilitazione e ritorno alla normalità. Al contrario, l’intelligence ucraina sostiene che a Luhansk e Donetsk – le repubbliche separatiste che da tempo fungono da bacino di reclutamento per carne da cannone – si manderanno al fronte anche i diciassettenni. Ragazzini che avevano 9 anni quando, nel 2014, l’orrore della guerra ha avuto inizio.

Le forze russe continuano ad avanzare a rallentatore, cercando anche di riconquistare Lyman. Su Bahmut da sei mesi si concentrano i mercenari (ed ex carcerati) convogliati Wagner, la compagnia-fantasma di Evgenij Prighozin, la cui voce ormai pesa distintamente in Russia, accanto a quella della destra ultranazionalista che vuole ulteriori svolte marziali. Prigohzin descrive Bahmut il tritacarne. Di fatto, una battaglia per estenuare gli ucraini, risucchiandoli nelle spire della distruzione cieca, quasi a sfidare il nemico sul terreno in cui si è mostrato più abile: la produzione di senso e giustificazione della guerra stessa. Intanto in Russia è apparso un Vladimir Putin con il bicchiere in mano, confusamente loquace e sorridente nello spiegare che la guerra alle infrastrutture esiste perché l’hanno iniziata gli ucraini con l’ «attacco terroristico» al ponte di Crimea e negando le forniture d’acqua ai territori separatisti. Come se la guerra fosse iniziata in ottobre. Nel ribadire l’idea di una Ucraina che esiste solo grazie a garanzie russe, Putin ha confermato che lo schema politico non cambia, e non ci sono concessioni in vista. La definizione delle operazioni belliche come un «lungo processo» sembra riflettere il crescente peso conquistato dal generale Surovikin, l’uomo che guida la devastazione delle infrastrutture civili ucraine, oltre preparare la popolazione russa a nuove difficoltà e testare la volontà dell’Occidente nel valutarne i costi.

Intanto in Russia i pochi volti di opposizione che hanno avuto coraggio di parlare, come Ilya Yashin, vengono condannati a 8 anni di carcere, mentre continuano a bruciare edifici. Da ultimo, a Mosca, un enorme rogo ha devastato la zona del centro commerciale Mega Khimki (7.000 metri quadrati), e poi, a Barnaul è andata a fuoco la fabbrica Altai, che produce pneumatici per l’esercito.

Certo si assiste a timidi segnali di dialogo e scambi di prigionieri, tanto fra russi ed ucraini, quanto fra Washington e Mosca: prova ne sia il rilascio della cestista Brittney Griner e dell’arci-trafficante di armi Viktor Bout. Ma il quadro complessivo, ad oggi, ci mostra che l’escalation ha davanti ancora spazio per proseguire. È evidente che per gli ucraini è imperativo mantenere l’iniziativa attraverso una serie di operazioni che sfruttano a loro vantaggio il terreno gelato, forzando in qualche modo l’idea, radicata nella storia, del Generale Inverno amico di Mosca.

Per fare questo, Kyiv ha bisogno e di maggiori difese rispetto agli attacchi aerei e missilistici, nonché di rifornimenti di munizioni (da qui gli annunci di incremento di produzione degli alleati, ad esempio il governo slovacco). Questo è, in definitiva, il messaggio portato nei giorni scorsi dagli attacchi che i droni ucraini hanno condotto contro basi russe fin nel cuore della Russia, a 700 km dal proprio confine: anche se questa sortita non viene apertamente rivendicata (la paternità viene anzi disconosciuta da Washington), essa ci dice che non ci sarà pausa, che il diritto alla difesa rivendicato da Kyiv non si ferma alla frontiera o davanti al pericolo di escalation, ma si estende alle basi da cui partono quei bombardamenti che ormai forzano al buio e al gelo l’intera popolazione.

Il problema non è tanto l’impatto militare di queste azioni (l’affondamento dell’incrociatore Moskva nel Mar Nero in primavera è stato molto più rilevante sul piano bellico). Il problema è che mano a mano che ci si allontana dal fronte domestico, verso azioni di risposta sui distretti confinanti, siano Kursk o Belgorod, oppure le basi sul Volga, si tocca il delicato nervo che Putin ha voluto allacciare all’idea di sopravvivenza della Russia: quella nozione di potenza imperiale, ancorata all’arsenale nucleare, che il putinismo insegue ed esalta. Si tratta di un leader che si è preso un rischio storico e si ritrova con un esiguo spazio di manovra e scelta strategica, mentre si intravede la sfida di pretoriani, milizie e mercenari. La posta in gioco è troppo alta perché si pensi che trovare uno schema di uscita politica da questa pericolosa traiettoria sia una responsabilità che non riguarda le democrazie occidentali.

* autore di “Frontiera Ucraina. guerra, geopolitiche e ordine internazionale” – Il Mulino 2022