Gli si sono gettati addosso tutti insieme, lo hanno immobilizzato e gli hanno strappato dalla bocca il filo di ferro che si era cucito sulle labbra in segno di protesta. Il giovane, un tunisino, continuava a scalciare, mentre qualcuno filmava. Un video che mostra questa scena suscita ancora polemiche, tanto che cinque consiglieri comunali di Milano hanno chiesto di entrare nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di via Corelli 28 per un’ispezione, mentre l’11 dicembre i detenuti all’interno del centro hanno protestato denunciando le condizioni pessime del cibo e l’uso massiccio e indiscriminato di calmanti e psicofarmaci.

Il giovane che il 2 novembre sarebbe stato immobilizzato dagli agenti di polizia intanto è stato rimpatriato. Ma non si dà pace: “Avevo fatto lo sciopero della fame per due giorni, perché non volevo essere rimandato indietro, poi mi sono cucito la bocca”, racconta al telefono al sito Fanpage. Gli agenti gli avrebbero strappato il filo di ferro senza l’intervento di un medico, immobilizzandolo a terra. L’uomo dice di avere lasciato a Campobasso la moglie e il figlio. “Sto malissimo, non ho soldi, non ho nulla, la mia vita è rovinata”.

Era arrivato in Italia nel 2020, poi si era trasferito in Germania per lavorare, quindi era tornato in Italia da cinque mesi, ma non aveva il permesso di soggiorno in regola. È stato fermato per un controllo di polizia a Bologna, per poi essere trasferito nel centro di Milano. Il caso è stato denunciato dalla rete di attivisti No Cpr, che monitorano la struttura da quando è stata riaperta nel 2020 e che hanno convocato una manifestazione per il 18 dicembre.

Il centro di via Corelli è stato uno dei primi Cpr aperti in Italia nel 1999 e da allora è stato protagonista di numerose proteste: la più famosa è stata quella durata dall’8 aprile al 23 maggio 2005, quando un ragazzo si tagliò le vene e fu soccorso in ritardo scatenando le proteste dei compagni, che furono represse dalla polizia ma continuarono con un lungo sciopero della fame.

“Ci risulta che gli agenti vadano a prendere i tunisini di notte per rimpatriarli. Vogliono evitare le proteste e quindi li sorprendono nel sonno. Prima li portano in aereo da Milano a Palermo, qui sono identificati dal console tunisino e poi sono portati in Tunisia: questo succede tutti i lunedì e i mercoledì”, racconta Teresa F., attivista del Naga e della rete No Cpr.

“In questi due anni abbiamo raccolto numerose accuse di abusi avvenuti all’interno del centro: a parte le condizioni igieniche e la quantità del cibo, ci risulta che spesso sono rinchiuse nel Cpr persone che non dovrebbero starci, perché hanno problemi di salute gravi. Abbiamo intercettato per esempio un malato oncologico, delle persone con problemi di epilessia oppure dei malati psichiatrici”, continua la donna che è entrata nel centro insieme all’ex senatore Gregorio De Falco nel maggio del 2022 e ha contribuito a scrivere un rapporto su quella visita.

“La struttura è a metà tra un carcere e un ospedale psichiatrico”, racconta l’attivista. “Ma a differenza del carcere non ci sono norme precise, tutto è affidato a circolari del ministero”, continua. Secondo il rapporto, all’epoca della visita la metà dei detenuti erano senza difesa legale e non erano stati messi nella condizione di nominare un avvocato. Nicola Cocco, un medico che ha partecipato alla visita nel Cpr, ha evidenziato la presenza di persone che avevano compiuto atti di autolesionismo, ha registrato l’uso massiccio di psicofarmaci e nessuna possibilità per i detenuti di accedere a visite specialistiche, inoltre nessuna presa in carico particolare per tossicodipendenti e malati psichiatrici.

Al momento in Italia sono attivi dieci Cpr per un totale di 1.100 posti

I centri per il rimpatrio sono stati istituiti in Italia nel 1998, ma nel corso del tempo erano stati gradualmente dismessi per via delle condizioni critiche di rispetto dei diritti umani all’interno e della loro inefficacia. Ma nel 2017 con il decreto Minniti-Orlando i Cpr sono stati di nuovo al centro di un programma di espansione: l’allora ministro dell’interno Marco Minniti aveva promesso di aprirne venti: uno in ogni regione italiana con lo scopo di aumentare il numero dei rimpatri.

Al momento in Italia sono attivi dieci Cpr per un totale di 1.100 posti, ma il piano del governo Meloni è quello di ampliare ulteriormente la rete con un investimento di 42 milioni di euro in tre anni. Lo prevede la manovra finanziaria varata il 21 novembre dal consiglio dei ministri e ora al vaglio del parlamento. L’obiettivo annunciato è quello di assicurare “la più efficace esecuzione dei decreti di espulsioni dello straniero”.

Nel 2021 sono transitati all’interno dei dieci centri attivi poco più di cinquemila persone, ma ne sono state espulse meno del cinquanta per cento, cioè 2.519, in linea con quanto avvenuto negli anni precedenti. Il motivo è che mancano gli accordi di rimpatrio con i paesi di origine. A fronte della loro scarsa efficienza, i centri hanno un costo elevato (nel 2021 sono stati spesi più di 40 milioni di euro per i dieci centri esistenti) e inoltre continuano a essere luoghi in cui avvengono negligenze e abusi.

La Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild) ha dedicato ai Cpr italiani un rapporto: “Nel nostro studio Buchi neri abbiamo raccontato di come l’enorme spesa per questi centri sia inutile, tenendo conto del numero esiguo dei rimpatri che vengono realmente effettuati. Esistono alternative possibili, come il case management, cioè la presa in carico individuale delle singole persone che, oltre a essere infinitamente più economiche, offrono risultati maggiormente apprezzabili nel garantire percorsi di integrazione nelle comunità”.

In un comunicato la Cild sottolinea che “i Cpr sono luoghi per i quali non esiste un ordinamento o un regolamento – così come per esempio avviene per il carcere – e l’esercizio dei diritti delle persone trattenute è difficoltoso e incerto (per esempio il diritto alla salute, alla comunicazione con l’esterno, all’assistenza legale). Inoltre, la gestione privata di questi centri li rende un vero e proprio business che, in nome della massimizzazione del profitto, comprime ancora di più i servizi che dovrebbero essere offerti alle persone recluse, va ricordato, senza che abbiano commesso alcun reato”.

Negli ultimi anni, inoltre, all’interno dei centri sono morte diverse persone in circostanze sempre critiche. Un esempio è ilsuicidio di Moussa Balde, il ragazzo della Guinea di 23 anni, che si è tolto la vita nel maggio del 2021 nel Cpr di Torino, dopo essere stato vittima di un pestaggio a Imperia. Balde è stato rinchiuso nel centro di Torino, in isolamento, dopo essere stato dimesso dall’ospedale. “In seguito alla morte del ragazzo le stanze d’isolamento sono state chiuse. Ma questo è avvenuto troppo tardi. Pur essendo illegittimi, questi spazi erano presenti nella struttura di Torino dalla sua apertura nel 1999”, spiega Maurizio Veglio, avvocato dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), che ha contribuito alla scrittura del rapporto Libro nero del Cpr di Torino.

“Il testo della finanziaria è molto vago sulle voci di spesa: ma quello che si può capire è che sono stati stanziati dei soldi per l’apertura di nuove strutture di detenzione. Questo significherebbe la moltiplicazione dei rischi per la salute delle persone detenute e anche per gli operatori. Bisognerebbe intervenire sulla garanzia dei servizi minimi: l’assistenza legale, sanitaria, linguistica e via dicendo. Non sull’ampliamento delle strutture. Al momento, per esempio, a Torino ci sono 140 persone nel Cpr, ma solo un medico e un infermiere per otto ore al giorno. Gli avvocati incontrano le persone spesso solo dopo la convalida, quindi quando il più è già stato deciso. Dopodiché la scelta di continuare a investire su questo tipo di strutture è discutibile, significa finanziare un modello fallimentare, che continua a produrre violazioni e sofferenze”, conclude Veglio, secondo cui alcuni Cpr come quello di Palazzo San Gervasio, in Basilicata, o quello di Macomer, in Sardegna, sfuggono a qualsiasi monitoraggio.

Un altro caso che ha fatto molto discutere è stato quello di Wissem Abdellatif, il ragazzo tunisino di 26 anni morto all’ospedale San Camillo di Roma il 28 novembre 2021, dopo essere rimasto legato al letto per cinque giorni nel corridoio del reparto. Proveniva dal Cpr di Ponte Galeria, dove era stato sottoposto a pesanti trattamenti psichiatrici per la diagnosi di “disagio schizoaffettivo”. Sulla morte del ragazzo è ancora aperta un’indagine.

Ma il Cpr di Gradisca d’Isonzo, in Friuli Venezia Giulia, è quello in cui negli ultimi due anni sono morte più persone: quattro. L’ex senatrice Paola Nugnes e l’ex deputata Doriana Sarli hanno presentato una relazione al prefetto, delle interrogazioni e poi un esposto alla procura di Gorizia il 22 settembre 2022, dopo avere visitato il centro di Gradisca il 17 giugno 2022. “Mercoledì 31 agosto un pachistano di 28 anni si è tolto la vita all’interno del Cpr, appena un’ora dopo il suo arrivo nel centro. Non è stato possibile sapere neppure il nome del ragazzo”, è scritto nell’esposto. “All’interno del centro ci sono persone molto giovani che non hanno commesso reati e che spesso tentano il suicidio presi dallo sconforto e qualche volta ci riescono”, spiega Nugnes.

“Il centro di Gradisca è inadeguato, c’è poca trasparenza nella gestione. Le persone sono chiuse dentro a delle gabbie, con delle cancellate alte. Sembrano in uno zoo”, continua Nugnes. “Tutto si svolge in queste aree recintate, mangiano e dormono nello stesso luogo. Alcune di queste persone hanno problemi di salute, abbiamo trovato un diabetico e poi molti malati psichiatrici”, continua l’ex senatrice, che ha denunciato l’assenza di un medico all’interno della struttura al momento della visita. “Non ci sono aree comuni, né mediazione culturale, non sono in contatto con gli avvocati”, conclude.

“Quello che abbiamo messo in evidenza è la presenza all’interno del Cpr di persone con vulnerabilità pregresse evidenti”, sottolinea l’avvocata Martina Stefanile, che ha partecipato alla visita. “Il caso che ci ha colpito di più è stato quello di un ragazzo di 19 anni, Bergadi Abdessadek, arrivato in Italia da minorenne, che è stato rinchiuso nel Cpr di Gradisca a maggio del 2022, dopo avere fatto un percorso d’integrazione in un centro di accoglienza da cui era uscito al compimento della maggiore età. Il suo caso ci era stato segnalato per un tentato suicidio”, racconta Stefanile. “Lo abbiamo trovato in una cella d’isolamento, denutrito. Avevamo una sua foto, ma era irriconoscibile. Aveva perso diversi chili”, continua l’avvocata. Il ragazzo aveva tentato il suicidio, provando a impiccarsi con delle lenzuola, ma era stato soccorso dai compagni di cella. Poi era stato sottoposto a pesanti trattamenti con psicofarmaci e messo in isolamento. “Una misura che non è prevista nei Cpr, ma purtroppo è ancora praticata con conseguenze disastrose per le persone”, conclude l’avvocata.

Nel suo libro del 2006 Lager italiani, Marco Rovelli descriveva il centro di detenzione di Gradisca come “una struttura fatta di gabbie e metallo finalizzata al controllo totale del detenuto, destinato a essere come un automa, radicalmente deprivato della propria personalità”. Sedici anni dopo, poco o niente è cambiato.

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