09 dicembre 2022 10:11

Si chiamava Mohsen Shekari e aveva 23 anni. È stato impiccato l’8 dicembre a Teheran, colpevole, secondo la giustizia rivoluzionaria, di aver “condotto una guerra contro Dio”. Questa incredibile accusa ha colpito un giovane manifestante che avrebbe aggredito un paramilitare (rimasto ferito) e bloccato una strada in occasione delle prime manifestazioni dopo la morte di Mahsa Jina Amini.

Mohsen Shekari è il primo manifestante messo a morte dall’inizio della rivolta, alla metà di settembre. Se fino a qualche giorno fa potevamo interrogarci su un possibile segno di distensione con l’annuncio, mai confermato, della dissoluzione della “polizia religiosa”, l’esecuzione di Shekari cancella qualsiasi ambiguità: il regime resta inflessibile.

Sono bastati due mesi e mezzo per processare e uccidere Shekari. Il potere iraniano si fa beffe delle procedure (il ragazzo non aveva nemmeno un avvocato difensore) e manifesta una doppia vocazione: la vendetta e la volontà di intimorire.

La determinazione dei manifestanti
A queste potremmo aggiungere la crudeltà: Shekari è stato costretto sotto tortura a registrare una confessione e la sua famiglia è stata privata del suo corpo. Un video straziante girato fuori del carcere mostra la madre mentre urla il suo dolore.

Secondo i giornalisti iraniani che seguono i social network in persiano, l’8 dicembre sono state pubblicate molte espressioni di collera. Di sicuro i manifestanti non intendono smobilitare.

Alcuni medici e infermieri hanno riferito che gli uomini e le donne non presentano le stesse ferite

Nel caso di Shekari si tratta di una decisione deliberata del potere, ma purtroppo il ragazzo non è il primo morto di questo conflitto. Negli ultimi tre mesi le vittime sono state già tra quattrocento e cinquecento, un numero considerevole che tuttavia non ha intaccato la determinazione dei manifestanti. Altre undici persone legate alla rivolta sono state condannate a morte. Oggi niente può salvarle.

A tutto questo bisogna aggiungere altri fatti inquietanti: secondo il quotidiano The Guardian alcuni medici e infermieri hanno riferito che gli uomini e le donne non presentano le stesse ferite. Le forze dell’ordine sparano spesso con fucili ad aria compressa: le donne vengono colpite ai genitali, al viso e al seno, mentre gli uomini alle gambe, alle natiche e alle spalle.

“Vogliono distruggere la bellezza delle donne”, ha dichiarato al Guardian, radiografie alla mano, un medico di Esfahan che ha curato clandestinamente i manifestanti.

L’Iran ha appena vissuto tre giorni di manifestazioni e scioperi i cui effetti più spettacolari sono stati i corridoi deserti e le tende abbassate nei bazar di Teheran e delle grandi città, segno che i giovani possono contare sul sostegno di altre frange della popolazione. Un nuovo appello a manifestare è stato lanciato per sabato e domenica. La paura è che la repressione possa essere feroce. Il capo della polizia ha dichiarato che i suoi agenti agiranno senza più “alcun freno”.

Quanto al presidente iraniano Ebrahim Raisi, ha proclamato che le manifestazioni non hanno alcun legame con le rivendicazioni economiche o culturali, ma sono il frutto di un “complotto americano” per abbattere l’Iran. Ormai siamo molto lontani dal velo. In Iran è in corso una lotta all’ultimo sangue.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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