«Il trentenne Francesco, papà di due gemelli neonati, ha compiuto il folle gesto, lasciandosi morire impiccato nella sua cella», ha rivelato ieri il Garante campano delle persone private della libertà personale, Samuele Ciambriello, aggiungendo particolari a quello che in una contabilità estraniante e fredda viene annoverato come l’80esimo suicidio nelle carceri italiane e il settimo negli istituti penitenziari della Campania dall’inizio dell’anno. Una notizia che arriva da Poggioreale e che mostra – se mai ce ne fosse stato ancora bisogno – l’urgenza di quel «gesto di clemenza per chi è privato della libertà» che Papa Francesco ha chiesto tramite una lettera inviata a tutti i Capi di Stato in vista del Natale, e che ieri è stato rilanciato dal Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma. L’indulto di fine anno richiesto urbi et orbi da Bergoglio sarebbe atto particolarmente necessario anche in Italia, se non altro per rinvigorire il profondo significato dell’«esercizio della giustizia». «Perché – come sottolinea Mauro Palma – non c’è giustizia senza anche atti di clemenza». D’altronde, ricorda il Garante nazionale delle persone private di libertà, c’era un tempo in cui «il ministero si chiamava “di Grazia e Giustizia”. È vero che ora la Grazia è presidenziale, non più ministeriale, però la clemenza in qualche modo è anche una componente della giustizia. Deve sempre esserci».

E INVECE nelle carceri italiane e nel nostro sistema di esecuzione della pena troppo spesso non c’è Grazia e neppure Giustizia. Basti pensare a quanto accaduto nella casa circondariale di Ivrea, dove ieri 8 agenti tra cui il comandante della polizia penitenziaria e il direttore dell’istituto sono stati sospesi per un anno dal Gip, Ombretta Vanini, dopo gli interrogatori di garanzia relativi all’inchiesta sulle presunte violenze e torture inflitte ad alcuni detenuti. Un fascicolo aperto da pochi mesi (mentre le botte e i soprusi sono stati denunciati a più riprese dal 2016 da associazioni come Antigone e partiti come i Radicali e Sel) che coinvolge 45 indagati tra il personale penitenziario, agenti, medici e dirigenti.

MA SOPRATTUTTO basti pensare all’incomprensibile decisione del Parlamento di far tornare in carcere dal 31 dicembre quei 700 detenuti che dal 2020 scontavano ai domiciliari il residuo di pena (inferiore ai 18 mesi) per limitare la diffusione del Covid in un sistema penitenziario che è cronicamente sovraffollato, e che attualmente ha raggiunto quasi il 120% di saturazione. «Oltre 56.000 detenuti per circa 47.000 posti effettivi, con una crescita di 1.500 unità negli ultimi 4 mesi», precisa Antigone che chiede al ministro Nordio di intervenire per limitare il danno compiuto dal respingimento della proroga alla scadenza del 31 dicembre che era contenuta nel decreto Rave.

Si tratta, come ha spiegato Stefano Anastasia, portavoce dei Garanti territoriali, di «detenuti di lungo corso, da anni in regime di semilibertà, che per due anni hanno goduto di una licenza straordinaria che gli consentiva di restare anche di notte a casa; persone che hanno scrupolosamente osservato le prescrizioni impartitegli dal giudice di sorveglianza, condannati cioè che hanno mostrato oltre ogni ragionevole dubbio il loro positivo reinserimento nella società». E ora, conclude Anastasia, «dal primo di gennaio dovranno ripresentarsi a dormire in carcere, costringendo l’Amministrazione penitenziaria a liberare gli spazi da loro precedentemente occupati e ora destinati ad altre funzioni. È una palese ingiustizia».